Due anni fa la vicenda di Piergiorgio Welby, oggi quella di Eluana Englaro, vicende differenti, che portano a riaccendere il dibattito su questi argomenti (eutanasia, accanimento terapeutico, testamento biologico). Si discute del valore della vita per una persona che sia in stato vegetativo, di “morte cerebrale”, o nella condizione di una malattia senza speranza. Nessuno può darsi la vita da sé, non scegliamo noi di venire al mondo, così, pure, non possiamo morire per una nostra scelta. C’è chi accetta questo dono con gratitudine, c’è invece chi lo disprezza per le sofferenze, le delusioni che spesso porta con sé. Per tutte le religioni monoteiste, Dio è l’origine della vita. Da quest’origine nasce la dignità della persona umana e della vita stessa, indipendentemente da come si evolve, indipendentemente dalle sue sofferenze, dai suoi problemi, dalle sue inquietudini, dalle sue miserie. La dignità della persona e la dignità della vita si identificano nello stesso individuo. Essendo un dono di Dio, la vita viene considerata un bene di cui non possiamo disporre, sia che si tratti della nostra che di quella altrui. Chi rifiuta Dio, invece, può considerare questo dono un diritto assoluto, “la vita è mia e ne faccio quello che voglio”, può ritenersi autosufficiente e padrone non solo della propria vita, ma anche di quella altrui, può arrivare a pretendere di stabilire dei criteri soggettivi, dei valori (suggeriti anche da questa società edonistica), in base ai quali stabilire se la vita è degna di essere vissuta o se invece debba essere soppressa. Secondo questo ragionamento, una società, magari giustificandosi con dei fini umanitari, si può arrogare il diritto di sopprimere un individuo se la sua vita costituisce un costo o un peso sociale. Abbiamo visto quali immani tragedie, (come i genocidi nazisti), siano state causate da questo modo di pensare, ma anche oggi, alla base di molte tragedie familiari, di molti omicidi e suicidi c’è questa concezione della vita. Per un cristiano, invece, una vita, una persona, ha dignità indipendentemente dal “valore” che le potremmo attribuire.
Si parla di legalizzare l’eutanasia, ma non si può confondere l’eutanasia (provocare volontariamente la morte per alleviare la sofferenza di una persona) con il rifiuto dell’accanimento terapeutico. Accanimento terapeutico significa sottoporre una persona a trattamenti sproporzionati, inutili, che prolungano artificialmente una vita senza speranza, destinata a finire naturalmente, provocando più danni che benefici alla persona. Noi tutti amiamo la vita e cerchiamo di sfuggire alla morte, che possiamo desiderare solo in caso di dolore insopportabile. Piergiorgio Welby amava la vita, per questo, e per amore della sua famiglia aveva accettato, per anni, di vivere attaccato ad una macchina, senza potersi muovere. Altri, in situazioni simili, rifiutano di ricorrere a questi mezzi, per prolungare la loro esistenza, accettando il loro destino. Probabilmente si era stancato di vivere in queste condizioni, ma il voler “staccare la spina” forse non va interpretato come il “farsi dare la morte”; ha voluto, credo, accettare quel trapasso che già da tempo sarebbe avvenuto senza il ricorso a mezzi tecnologici. Di questa vicenda mi ha colpito dolorosamente il rifiuto del Vicariato di Roma alle esequie religiose. Capisco il timore di aprire la strada a forme mascherate d’eutanasia, ma non credo che si possa esprimere, con sicurezza, un giudizio negativo su quest’uomo. La morte del povero Welby potrebbe essere considerata anche come l’accettazione della volontà del Signore. Certo può essere difficile comprendere, se non c’è amore per Dio e per l’uomo, come qualcuno possa accettare cristianamente il passaggio ad un’altra vita.
Veniamo alla vicenda di Eluana Englaro che vive da 16 anni, dopo un’incidente, in uno stato vegetativo, alimentata con sondino naso-gastrico, senza bisogno di farmaci o di altri presidi terapeutici. In seguito alle ripetute richieste del padre, i giudici, della corte d’appello di Milano, hanno decretato l’autorizzazione alla sospensione dell’alimentazione. A questa conclusione sono giunti valutando delle dichiarazioni fatte dalla ragazza, alcuni anni prima dell’incidente: in conformità ad esse, lei avrebbe preferito la morte piuttosto che essere tenuta in vita artificialmente. Inoltre i giudici hanno ritenuto che fosse stata provata l’irreversibilità dello stato di coma. Questa sentenza suscita molte perplessità. Il trattamento cui è sottoposta Eluana difficilmente, credo, possa essere considerato accanimento terapeutico, in quanto si tratta solo della somministrazione d’alimenti. Non c’è alcuna certezza della reale volontà della persona. Anche i concetti stessi di “morte cerebrale”, di coma irreversibile, sono stati messi in dubbio da illustri clinici, la morte cerebrale è tutt’altro che un dato certo, infatti ci sono stati casi di persone che si sono risvegliate dopo lunghi periodi di coma. Nessuno può dimostrare che la morte cerebrale determini la separazione dell’anima dal corpo e quindi la morte reale dell’individuo, c’è il dubbio che quel corpo conservi ancora un’anima. “In dubio pro vita”, in altre parole nel dubbio bisogna presumere di trovarsi di fronte ad un individuo vivo e astenersi dal commettere un omicidio. Non si può quindi obbligare un medico ad eseguire una sentenza di morte. E’ evidente che, se sono i giudici a dover prendere una decisione, in queste circostanze, siamo di fronte ad una carenza legislativa. Per evitare che in situazioni come queste possano essere attuate forme d’eutanasia mascherata, la Conferenza Episcopale Italiana (CEI), ha chiesto al Parlamento una legge sulla fine della vita, una legge che riconosca il valore legale di dichiarazioni inequivocabili sul trattamento terapeutico che la persona consentirebbe le fosse praticato in caso di malattie gravi che comportino stato di incoscienza (una sorta di testamento biologico); però questo non riguarderebbe l’alimentazione e l’idratazione, considerati trattamenti di sostegno vitale diversi dalla terapia sanitaria. Quindi dovrà decidere il medico curante secondo scienza e coscienza nel rispetto del supremo bene della vita.
Trovo giusto che si parli della difesa della vita, che è un dono di Dio, ed è naturale che l’uomo cerchi di prolungarla con ogni mezzo, ma si parla poco della morte intesa come “finis vitae”, la fine ma anche il fine della vita. Se abbiamo fede, può essere considerata anche essa un dono. Quella fine che può sembrarci un salto nel buio, può significare, per chi crede, il passaggio che conduce all’abbraccio con l’infinito.
Gustavo Mion