CILENTO: TERRA DI RIVOLUZIONI GALANTUOMINI E BRIGANTI

di Biagio Palumbo

Quest'anno ricorre il 150° anno dell'unità nazionale, il presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano ha iniziato ufficialmente i suoi festeggiamenti il 7 Gennaio a Reggio Emilia patria del tricolore italico. Gli avvenimenti storici, politici e sociali che caratterizzarono il nostro risorgimento sono stati molteplici e a volte descritti e commentati attraverso libri di storia e documenti di settore. Questa ampia documentazione di notizie ci fornisce una visione del tutto generale di quei fatti, trascurandone a mio avviso dettagli e particolari di notevole interesse. Il percorso verso l'unità nazionale fu duro, aspro e faticoso, quando gli stati dell'intera penisola si ribellarono contro i rispettivi sovrani, chiedendo condizioni di vita migliori, facendo sì che oggi noi tutti viviamo in uno stato costituzionale e democratico. Esecuzioni capitali e atroci condanne si susseguirono in un arco di tempo che, partendo dalla Repubblica Partenopea del 1799, arrivò sino alla spedizione garibaldina del 1860. In questi lunghi e faticosi anni di cospirazione segreta, merita maggiore attenzione il ruolo del nostro amato Cilento. Esso faceva parte del Principato Citeriore con capoluogo Salerno e, già dai primi albori risorgimentali, risultò essere scomodo a corte e per questo considerato patria dell'anti assolutismo per eccellenza. Il Sovrano definì il Cilento la "Terra dei Tristi", viste le povere condizioni strutturali del suo territorio e l'arretratezza sociale della sua gente la maggior parte di essa contadina. Nonostante questo brutto ed orrendo appellativo borbonico, il Cilento diede prova di coraggio e di insubordinazione verso una monarchia avida e poco innovatrice. Non bastarono le condanne capitali, il dolore e il martirio a colmare la sete di libertà che i suoi abitanti avevano. Neppure i monumenti di giustizia, simbolo della forza della repressione borbonica, fecero cessare la generosità del popolo cilentano nel chiedere Costituzione e Libertà. Un noto liberale del tempo, Ferdinando Petruccelli della Gattina, parlando del Cilento, disse: "Il Cilento è una terra selvaggia, indomita ed affamata, dove il grido di libertà non si fa udire giammai tra la gente brava e determinata. I cittadini sono taciturni, burberi e fieri, i quali odiano per istinto qualunque potere, la loro obbedienza è una protesta, la loro sottomissione è una sfida."
Ecco, in queste brevi e profonde parole sono racchiusi ben 61 anni di cospirazione anti-borbonica. Il governo Borbonico conosceva bene la determinazione e la pericolosità del Cilento; per questi motivi esso veniva strettamente vigilato dai suoi funzionari, i quali non mancarono di comunicarne a corte la sua costante e profonda attività rivoluzionaria . La numerosa corrispondenza borbonica, indirizzata al Sovrano sul Cilento, fu vasta e dettagliata e attraverso essa il governo apprese notizie e particolari di notevole interesse. Tra questi merita attenzione un rapporto regio datato 1820, in cui l'allora Intendente di Salerno scrisse parole davvero raccapriccianti sul Cilento: " Il Cilento è il focolaio di tutte le rivolte, esso decide la calma e la stabilità dell'intero regno" . Parole dure e significative nei confronti di un'area poco omogenea strutturalmente, ma decisa e compatta nel mettere costantemente a repentaglio la stabilità di un'intera monarchia. Neppure la vandalica repressione borbonica riuscì a cancellare l'odio e il disprezzo che il popolo cilentano nutriva verso il proprio oppressore. La durezza e la determinazione della monarchia nel domare le rivolte nella terra dei ladroni e dei briganti è visibile ancora oggi, dove lapidi e frasi commemorative testimoniano il coraggio e l'orgoglio dei suoi abitanti nel chiedere migliori condizioni di vita. Tra le tante rivolte che scoppiarono nel Principato Citeriore, la più patriottica di esse risulta quella del 1828. Perché essa nacque proprio dal Cilento e vide come protagonisti principali i suoi abitanti. La rivolta del Cilento del 1828 parti da Montano Antilia, dove un gruppo di rivoluzionari, il 27 giugno 1828, si diresse alla volta di Palinuro. La mattina seguente i ribelli occuparono il forte con la speranza di trovarvi armi e munizioni. Le loro aspettative furono deluse dal ritrovamento di poche armi e qualche barile di polvere da sparo avariata. Nonostante tutto essi continuarono la loro trionfante marcia, giunti nella piazza principale del paese , il popolo con il parroco li accolse festosamente ed in quel frangente fu letto il proclama della rivolta:
Piazza di Palinuro 28 Giugno 1828
Popolo Napoletano, notate con stupore che nel 1820 questo spirito di amor di patria si cooperò per la felicità e il vantaggio dell'intero regno di Napoli, come lo comprovò il ribasso del sale e la libertà individuale del popolo tutto e come comprovato l'avrebbe ancora il ribasso di tutti i pesi se la mano di ferro con sforzi soprannaturali, abusando del suo braccio superiore oppresso non avesse il popolo come praticò con tutti i mezzi che erano in potere della forza e distrutto non l'avesse per fargli perdere quei vantaggi che si sarebbero sperimentati sugli interessi dei napoletani. Questo popolo immiserito mosso da forte e positiva disperazione viene oggi a reclamare il buon governo della costituzione di Francia chiamando in sostegno ed aiuto la mano forte di Dio, la bandiera francese in garanzia e le armi di questo popolo tutto perché il nostro buon sovrano non sia renitente a determinarsi d'accordare la richiesta di costituzione. Popolo, sarete felici dal perché da questo giorno in avanti, il sale non si comprerà che a grana quattro il rotolo, la fondiaria sarà sospesa per ora e quindi diminuita e tutti gli altri pesi e dazi saranno aboliti. Benedite dunque questa santa giornata con dire ad alta voce Viva Dio, Viva il nostro Re, Viva la costituzione di Francia. Nicola Gammarano - Domenico Capozzoli –Antonio Galotti – Domenico Antonio De Luca – Pasquale Novella.

La mattina seguente i rivoluzionari partirono alla volta di Camerota, mentre un distaccamento faceva insorgere Licusati e Lentiscosa. Giunti a Camerota la comitiva, accresciuta numericamente, fu accolta festosamente dalla popolazione locale, con il parroco che celebrò le funzioni religiose esponendo il SS. Sacramento e cantato il Te Deum. La mattina del 30 Giugno gli insorti si diressero verso San Giovanni a Piro; prima di entrare in paese, udirono da lontano l'irrompente frastuono delle campane fatte suonare in segno di pericolo. Infatti all'ingresso dell'abitato un gruppo di sangiovannesi cercò in tutti i modi di ostacolare la strada ed il loro l'ingresso in paese, ma essi si arresero ai primi colpi di fucile. Finalmente i ribelli entrarono in paese, qui il parroco ed il sindaco si rifiutarono di fornire loro le accoglienze dovute, costringendo alcuni rivoltosi al saccheggio di abitazioni tra cui quella del benestante Carlo Bellotti. L'ostilità del popolo sangiovannese nei confronti della rivolta, spinse allora la comitiva ad inviare al sindaco di Bosco e quello di Roccagloriosa il seguente ordine:
Sig.Sindaco, a vista della presente fate subito pronte cinquecento razioni per cinquecento nazionali e siete avvertito di non fare appartare persona alcuna dal paese, assicurandogli sotto la parola di veri spartani per la loro salvezza. Avvicinatevi però voi con i galantuomini ed il parroco a ricevere la bandiera della Costituzione di Francia, in caso poi che vi negate, vi succederà sicuramente come in questo momento è accaduto al vicino indegno paese di S. Giovanni. Fate dunque tutto quanto e per farvi merito presso noi, a vista della presente: Viva Dio, Viva il Re e la Costituzione di Francia. I Nazionali in capo sono i seguenti: Domenico Capozzoli, Antonio Galotti, Angelo Lerro, Nicola Gammarano, Giuseppe Ferrara, Domenico Antonio De Luca.


All'imbrunirsi del cielo i rivoltosi si diressero verso il paese di Bosco. Giunti sopra un'altura che sovrasta l'abitato denominata " Sant' Angelo" notarono in lontananza la piccola borgata . Ad attenderli sul posto c'erano circa venti Boschesi animati da un forte spirito patriottico. Bosco già da giorni era pronta all'evento; infatti giunti in paese le accoglienze furono strepitose con le autorità civili e religiose che facevano gli onori di casa. Anche a Bosco come era avvenuto negli altri paesi della rivolta, i rivoluzionari con l'intera popolazione si recarono in chiesa, dove il parroco espose il SS. Sacramento e fece cantare il Te Deum. Terminate le funzioni religiose davanti la chiesa di San Nicola, le donne Boschesi, ancora più patriottiche dei loro cari, gareggiarono nell'offrire agli insorti bevande di vario genere, mentre canti e balli si alternavano sotto il cielo chiaro e silenzioso, con le fiaccole che illuminavano l'intera borgata ed il tricolore che sventolava per la prima volta sulla vetta del campanile. I balli durarono tutta notte fino all'alba, quando i rivoltosi si diressero verso Acquavena, paese limitrofo, dove le accoglienze furono altrettanto festose. La marcia dei rivoltosi proseguiva fino a quel momento pacificamente, tra accoglienze, adesioni e momenti di giubilo, ma nessuno degli insorti sospettava che già all'indomani della presa del forte di Palinuro, il governo borbonico aveva predisposto una repressione unica ed esemplare. Infatti Re Francesco I, avvertito dello scoppio della rivoluzione nel Cilento, non esitò un istante nell'opera repressiva. Con decreto istantaneo nominò con pieni poteri a compiere tale impresa il maresciallo Francesco Saverio del Carretto. Costui sin da subito incominciò la sua vandalica e spietata opera di ordine pubblico sottoscrivendo a Vallo un brutale manifesto datato 6 luglio 1828, con il quale diceva che Bosco, Camerota, Licusati, Acquavena e Cuccaro, in cinque giorni dovevano essere distrutti e rasi al suolo. "Specialmente il Comune di Bosco, luogo ed asilo di briganti e di ladroni sarebbe insoffribile. Sia dunque distrutto e non lasci delle sue perfide mura vestigio alcuno". Questo orrendo scritto non faceva in tempo ad essere ufficializzato che già all'indomani (7 luglio 1828), il piccolo villaggio di Bosco, prima illuminato dai canti patriottici e dalle stupende fiaccole, si trasformò in poco tempo in un tetro ammasso di ruderi in fiamme. La severa opera repressiva verso questa borgata, non cessò con la sola distruzione del villaggio, ma essa fu completata con la spietatezza e la determinazione di un sovrano fragile e pauroso. Re Francesco I, davanti al fatto compiuto, emanò il 28 luglio 1828 un regio decreto con il quale cancellava per sempre dai comuni del Regno il comune di Bosco e fissava il domicilio dei suoi abitanti nel comune limitrofo di San Giovanni a Piro. Un'altra brutale sconfitta nei confronti di una popolazione che per un certo tempo fu costretta a vivere nelle campagne, senza poter ritornare o ricostruire le proprie case neppure dopo le numerose suppliche indirizzate a corte. Grazie al nuovo sovrano Ferdinando II, nel mese di maggio del 1832 si permise ai Boschesi la ricostruzione. Quella sera del 30 giugno 1828 per Bosco sarebbe stata memorabile, perché, se da una parte sarebbe stata ricordata per il suo forte spirito patriottico, dall'altra sarebbe risultata fatale per l'avvenire del paese, che da allora perse la dignità di Comune, senza mai più riacquistarla. Ma le luci e le fiaccole che illuminarono cuori e speranze di ogni singolo Boschese, non potranno svanire nel nulla, perché la crudele repressione non riuscì suo malgrado a cancellare quel patriottismo innato che Bosco nutriva. La parola Libertà era ben incarnata nella mente e nel cuore di ogni singolo Boschese e neppure il martirio o la perdita delle persone care riuscì a debellarla. La repressione contro la rivolta del Cilento del 1828 fu davvero memorabile: condanne e processi farsa si susseguirono subito dopo l'esempio di Bosco. La maggior parte degli insorti furono catturati, altri riuscirono a lasciare il regno mentre alcuni si consegnarono spontaneamente alle istituzioni borboniche. Il Cilento fu lo scenario delle fucilazioni, degli ergastoli e dell'esilio volontario. Accuse infamanti e prive di riscontro portarono nelle carceri e galere borboniche numerosi Cilentani. I martiri del Cilento sono davvero tanti, per elencarli tutti non basterebbero intere pagine di libri, ma ricordare le loro gesta mi sembra doveroso ed indispensabile. Il sacrificio di chi ci ha preceduto non va affatto dimenticato, anzi va protetto e valorizzato in modo autentico ed efficace per non perderne la memoria. Le rivolte del Cilento fallirono secondo me per due motivi: 1) tutte le società segrete che si formarono dopo la fine della Carboneria avevano perso la loro identità principale, cioè la segretezza e la concretezza del passato. Inoltre in ognuna di esse risultavano iscritte persone molto vicine alla corte. Proprio per queste mancanze e per la loro debolezza, si consentì la facile intrusione di spie borboniche, che non mancarono di comunicare in anticipo al governo mosse e strategie rivoluzionarie. 2) L'altro motivo per cui le rivolte Cilentane fallirono deriva dal fatto che tutte le associazioni rivoluzionarie formatesi nel periodo, ebbero come capi e protagonisti soprattutto esponenti della Borghesia Liberale, costituita da galantuomini e medi proprietari terrieri. Essi, pur nutrendo uno spirito patriottico e liberale, intravedevano nelle rivolte il mezzo efficace per migliorare o ampliare i propri possedimenti. L'unica classe sociale che combatteva con contenuti autentici e sinceri era la classe contadina, molto presente e diffusa sul territorio. Essi furono i veri rivoluzionari di tutte le insorgenze Cilentane, spesso ingannati dalle classi predominanti capaci solo di sfruttarne il coraggio e la determinazione. Neppure la "piemontesizzazione" post-unitaria riuscì a ricompensare nel modo giusto le lunghe e dolorose attese di questa gente, anzi essa determinò notevolmente il suo degrado sociale, contribuendo alla formazione di bande criminali che, attraverso razzie e saccheggi di vario genere, penalizzavano ancora di più questa zona ricca di ideali e principi patriottici. Il Piemonte, subito dopo il processo post-unitario qualificò le masse brigantesche come dei malfattori, ignorando le vere ed autentiche problematiche del Sud. I Savoia incominciarono l'opera repressiva verso i cafoni del sud, che storicamente è chiamata "Lotta al Brigantaggio Post-Unitario". Il baluardo Cilento fu illuso ancora una volta dalle promesse piemontesi: la sua costante attività liberale aveva solo cambiato il nome di una monarchia, mantenendo vive quelle illusioni e quelle mancate promesse . Oggi viviamo in una nazione unita, costituzionale ed indipendente, ma le problematiche che esistono nel Cilento sono rimaste invariate, perché il suo decentramento politico e la lontananza dalle grandi città, lo penalizza notevolmente ancora oggi . Ci auguriamo che il 150° anniversario dell'Unità d'Italia possa essere lo strumento utile non solo per ricordare l'impegno patriottico di questa terra, ma anche l'inizio di una riqualificazione forte e coesa di un territorio umile e laborioso, ricompensandolo così nel modo giusto da ingiustizie che si trascinano da oltre 150 anni.
In occasione del 150° anno dell'Unità Nazionale