A History of Violence è un film di David Cronenberg di qualche anno fa, ambientato in una cittadina del Midwest americano, il cui titolo tradotto in italiano vuol dire pressappoco “Storia di una violenza’’. Esso potrebbe lasciar presagire il massacro degli indiani avvenuto in quella zona nell’ottocento; in realtà racconta la vicenda di un uomo medio americano coinvolto in una serie di traversie, suo malgrado. Sarebbe il titolo giusto anche per raccontare la storia di Palinuro, l’innocente naufrago che vaga per giorni e notti nel mare fino a trovare una morte violenta sulle rive del capo, l’angusto fato del nocchiero che s’intreccia con quello della cittadina a cui ha donato il nome. Una storia, quella di Palinuro, che nasce col sangue, una storia di espiazione del danno inflitto a un innocente che cercava di sopravvivere alla disavventura. La leggenda del nocchiero di Enea avrebbe potuto diventare un mito attorno al quale costruire una storia, e probabilmente anche un’economia, tuttavia ancora oggi, passati gli anni zero del Duemila, resta vagamente nell’aria come un’ombra distante e poco conosciuta, un delitto di paese di seconda importanza rispetto alle “bocche di rosa” che popolano l’immaginario del capo Palinuro.
Basterebbe anche una distratta ricerca tra le testimonianze di chi è passato in questa terra dimenticata dagli dei, per intuire che non si riesce a restare insensibili di fronte alle bellezze tutte naturali che si districano e rincorrono tra lo scoglio, l’ulivo, il tramonto rosso della sera, e le calette marine. Eugenio Montale per esempio, descrive il promontorio ‘’come uno squalo smisurato, cariato d’oro’’, e ognuno in quella provocazione della natura al mare, che è il promontorio, ha sempre potuto vedere un po’ quello che voleva, come fosse una grande nuvola in cielo che diventa, a seconda di chi guarda, un coniglio che dorme, un animale malefico, o una semplice parte di terra con un faro che illumina la notte dei viaggiatori di mare. Oppure il lungo viaggio di un altro poeta del Novecento, Ungaretti, che preso come da una sindrome di Stendhal che annichilisce i sensi di fronte alla bellezza che lo sorprende, racconta nei suoi appunti il porto, e il paese, e chi lo vive, straniero tra paesani che si conoscono tutti, e ripercorre poi le gesta del nocchiero di Enea nel ‘’Recitativo di Palinuro’’ che, chissà se per una perversa maledizione, ebbe poca fortuna letteraria. Ancora, ci sarebbe tutta una storia da raccontare, le estati di Alfonso Gatto a Palinuro, di cui resta qualche frammento di poesia (‘’Vedemmo l’alba sorgere dal capo/nero di Palinuro, sabbia rosa/d’argento inumidita dai piovaschi/di quella dolce notte’’); e tutta la leggenda che si rincorre nell’arte sul capitano sfortunato vittima di kakotanasia, la statua di Palinuro di Martini, le tele di Guttuso, e il boom economico che trasformò un paese che viveva per se stesso in un’attrazione per turisti e viandanti, avventurieri alla scoperta di un angolo selvaggio da addomesticare. Tuttavia sarebbe una storia povera e interrotta, fatta di stralci raggranellati qui e là. Perché questa storia non si racconta nei pochi reperti archeologici che sono stati ritrovati dagli scavi, in qualche vasetto o moneta regalati ai musei d’Europa, né se ne trova una vera traccia sulla Molpa o nell’Eneide di Virgilio, quello è il momento della fondazione. Da quel punto in poi non resta che immaginare, e mandare a memoria la tipica storia del Sud, dove la lentezza si rincorre in minuscoli cambiamenti mentre fuori il mondo corre; la ferrovia che collega Palinuro con l’esterno, la scoperta delle città; i matrimoni combinati, la lotta per le terre, le piccole mitologie di uomini che diventano riveritissimi in paese, i cosiddetti nobili e possidenti, col cappello da gentiluomini comprato nientedimeno che al centro di Napoli, mentre il popolo fatìa per terre e mare; e le prime automobili, le strade che poco a poco diventano sempre meno impervie, l’arrivo degli stranieri, dapprima invisi e malvisti, poi fatalmente accettati al prezzo di qualche lira, e finalmente il confronto, l’apertura a nuovi mondi. Una storia meravigliosa che avrebbe potuto continuare a crescere in aneddoti se solo la si fosse assecondata. Invece ci deve essere stato un momento reazionario preciso in cui si è deciso che il Duemila a Capo Palinuro non doveva entrare, così come il nocchiero bisognava ammazzarlo in spiaggia prima che mettesse piede in paese. Un momento preciso in cui il palinurese si è sentito così invasato da quello che stava avvenendo attorno a lui, da provare un brivido d’onnipotenza e pensare che ce l’avrebbe fatta da solo, anche senza lo straniero, e tutte le sue menate sulla globalizzazione. Invece di viaggiare assieme al resto del mondo, di aprirsi, guardare altrove, confrontarsi, ha creduto che fermare tutto non sarebbe stato un ostacolo, e si è perduto a giocare alle guerre di famiglia mentre altrove fiorivano strutture e locali e strade, si è sprecato nelle faide e impegnato nello straparlare del figlio del barbiere mentre persino nel sud della Grecia si stava assecondando la rivoluzione. Da terra selvaggia, affascinante e burbera come lo era la California, come lo è la Sardegna, a terra desolata, sbattuta tra interessi personali e malelingue. Il tempo si è fermato, e non è arrivato il libro, la parola (se non quella di qualche preticchio), la connessione wi-fi in aree pubbliche, il night-club, il rock’n’roll, il kebab, il cinema, e persino il trasporto pubblico che collega con la stazione. Non è arrivato – questo ed altro – perché forse non lo si vuole, o forse perché, come dice De Andrè, ‘’dai diamanti non nasce niente’’, e quante volte si è sentito dare a Palinuro l’appellativo di ‘diamante del Cilento’! In fondo essere un diamante non è male, non nasceranno fiori, ma resta l’inutile e maledetta bellezza di mare e spiagge.
Giovanna Taverni