MORTE DI UN BAMBINO

IL "GRANDE DISEGNO" DELLA VITA

In un mondo in cui la vita si fa sempre più frenetica, ma al contempo è vissuta in maniera sempre più superficiale, l’evento della morte di un bambino o di un adolescente è una di quelle cose che ci fanno fermare un attimo a meditare sulle realtà della morte e della vita.
Si nasce per vivere e per morire, ma, quando si spegne un bimbo, sembra che vi sia la negazione di una logica biologica, una sorta di ”ingiustizia”. Fortunatamente, oggi, per i progressi della medicina, i bambini muoiono molto meno che in passato. Alcuni decenni or sono, molte malattie erano incurabili: i ragazzi erano colpiti come e più degli adulti, la mortalità infantile era enorme. Forse, anche per questo, ascoltando i ricordi degli anziani, una circostanza così straziante, era accettata e vissuta con più rassegnazione. Il bambino è un soggetto che deve crescere e maturare, per questo, il passaggio di uno di loro dalla vita alla morte comporta un particolare carico psichico, affettivo ed emotivo per tutti quelli che gli stanno vicino. Nell’anziano la parabola della vita, fisiologicamente, si trova nella fase discendente, che lo porterà, in tempi più o meno lunghi al trapasso. Nel fanciullo, nel giovane, invece, la morte é il fallimento di una promessa, poiché, per natura, é insita, in ogni piccolo, una fisiologica promessa di vita. Ci sono delle profonde diversità su come la morte è vissuta dai genitori, a seconda dell’età del piccolo, o se si tratta di morte improvvisa, (ad esempio da causa traumatica), o di morte conseguente a malattia cronica o maligna. Il bambino, del primo anno di vita, ad esempio, non ha consapevolezza dei concetti stessi di vita e di morte. La situazione è diversa per un ragazzo in età scolare o per un adolescente. Una morte improvvisa non causa di solito sofferenze, comunque, se le causa, sono di breve durata, ma trova la famiglia impreparata ed esposta a un dolore psichico drammaticamente acuto. Diversa é la situazione quando ci si trova davanti allo stadio terminale di una malattia, che si configura come la fase di un percorso obbligato verso la morte. In questo caso le sofferenze per il bimbo possono durare per molte settimane, o mesi, così le angosce che sono vissute dai genitori.
In questo caso il compito delle persone che assistono il malato è quello di sostenerlo con la mente e con il cuore, mentre lo si accompagna verso una fine ineluttabile, ed è quello di aiutarlo a sopportare le sofferenze fisiche e psichiche, anche non lesinando le terapie analgesiche ed ansiolitiche. In queste situazioni possono insorgere problemi etici, di non facile soluzione, legati al cosiddetto “accanimento terapeutico”. Si tratta di cure straordinarie che servono solo a prolungare artificialmente la vita quando una malattia ormai non da più speranza di miglioramento, una vita che, in breve tempo, è destinata a finire. Si è discusso anche dell’opportunità di far morire il bambino terminale a casa piuttosto che in ospedale. A casa, in genere, le varie problematiche sono meglio gestibili, ovviamente con l’assistenza di personale sanitario specializzato. Come ha scritto il prof. Burgio, illustre pediatra, “la fase terminale della vita di un bambino oncologico, è una fase solenne. E’ resa tale dalla dignità della sofferenza. Di fronte a ciò sbiadisce il valore della vita, se era stato misurato sui comuni parametri: degli obiettivi da raggiungere, del benessere da conseguire, del ruolo sociale da occupare”. Non verranno a perdere nulla della loro dignità i due momenti essenziali, estremi della vita, quello del venire al mondo e quello di uscirne.
Veronica, una bambina morente di tredici anni, ha detto: “Quello che conta nella vita non è saperla apprezzare...quello che conta è saper accogliere il momento in cui finisce”. Poco valore quindi alle sue conquiste, ma tanto, invece, al dono stesso di averla avuta e vissuta fino al suo termine, una vita vivibile con la serenità di apprezzarne un suo scopo intrinseco. Per lunga o breve che sia la nostra vita, nessuno è vissuto invano, ognuno ha un suo ruolo nel “Grande Disegno”. Coloro che stanno vicino ad un piccolo morente, dovranno assisterlo, aiutarlo a morire con lo stesso amore con cui lo hanno aiutato a vivere. Ogni adulto che assiste un “bambino terminale” dovrebbe tenere presente che, nella realtà della morte, si conclude la più profonda realtà della vita e che “la morte è l’accettazione coraggiosa dei limiti della propria esistenza”.

Gustavo Mion