L’articolo che segue é stato scritto alla fine dello scorso settembre ed é parte di un’analisi piú ampia che muoveva dalla (di allora) condizione politico-economica del Paese per mostrare un parallelo (e distante) percorso di sviluppo tra “nord” e “sud”. Qui ci si propone di riprendere alcune considerazioni sulle peculiari caratteristiche della struttura socio-economica di buona parte dell’area sud del Paese al “solo” fine di stimolare un dibattito costruttivo sul tipo di societá che vogliamo. Un impegno al quale i politici locali non possono continuare a sottrarsi.
(.......) Newsweek, settimanale economico americano, riprendendo alcuni dati di due ricerche italiane (una dell’Istituto Mario Negri di Milano e l’altra del Centro per l’Infanzia Burlo Garofano di Trieste) ci informava, alla fine di settembre, dell’ovvio; che il Sud è la regione più povera d’Europa in quanto a reddito pro-capite; che le possibilità occupazionali sono minime se non nulle, che i servizi sanitari sono, qualitativamente, del tutto inadeguati ancorché costosi; che il sommerso si aggira intorno al 30-40% con picchi nel settore dei servizi del 48% e che l’economia è in gran parte controllata dalla criminalità organizzata. Proviamo, però, ad analizzare brevemente tali problematiche.
1. Basso reddito pro-capite ed economia sommersa. Secondo i dati dell’ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica), 7,3 milioni di persone nel Mezzogiorno d’Italia guadagnano meno di 521 euro al mese e di questi la metà vive con meno di 435 euro al mese. Un dato ufficiale difficile da contestare, che tuttavia va letto e inquadrato all’interno di un’economia che “sostiene” un sommerso stimato intorno al 40%. Molte delle persone che percepiscono un salario prossimo a quello dei loro colleghi del Nord sfuggono alle statistiche nazionali poiché non hanno un contratto di lavoro regolare. E’ sicuramente difficile dare una motivazione certa del perché questo sia un fenomeno molto più diffuso al Sud piuttosto che al Nord. Vorrei però aggiungere una mia considerazione alle varie giustificazioni fornite da diversi commentatori. Con un costo della vita più elevato al Nord rispetto che al Sud ma con salari uguali all’interno delle diverse categorie, logica (economica) vorrebbe che i lavoratori del Nord fossero inclini a spostarsi al Sud. Ma allora perché avviene esattamente il contrario? Perché questo schema rigido di salario non regge; perché le imprese “regolari” subiscono la concorrenza (sleale) da parte di quelle che, con contratti “in nero”, hanno un costo del lavoro molto basso (e flessibile) e sono in grado di posizionare i propri prodotti ad un prezzo inferiore sul mercato. Non potendo competere sul prezzo, una percepita maggiore qualità del prodotto risulta l’unico modo di distinguersi dalle imprese che operano in nero, e quindi “sopravvivere” sul mercato. Ma la differenziazione qualitativa richiede manodopera altamente qualificata e ingenti investimenti in macchinari e ricerca; risorse di cui generalmente queste imprese non dispongono e che fanno fatica a reperire su un mercato del credito bancario scarsamente incline a sostenere investimenti nell’area sud del Paese. Così gli investimenti, i servizi e le industrie vanno ed operano là dove i soldi ed i mercati esistono già: al Nord.
2. Scarse possibilità occupazionali. Il punto precedente conduce direttamente alla conclusione che, stanti così le cose, o ci si rassegna a lavori saltuari, precari, in nero o ci si sposta nelle aree dove esiste l’offerta di lavoro. Ovviamente esiste l’alternativa sempre valida dell’impiego pubblico, ma di questo preferisco parlare al successivo punto.
Per invertire la rotta occorre uno shock esterno alla locale economia; investimenti – e non politiche assistenziali – mirati a selezionare e riqualificare diverse aree para-industriali del Mezzogiorno, puntare sempre più sui servizi sia turistico-ricettivi che a carattere più industriale. Se si considera che l’Inghilterra è una società (quasi per intero) di servizi, possiamo solo immaginare quali sono le potenzialità in questo campo per il nostro territorio. E’ comunque vero che l’area meridionale del Paese è geograficamente lontana dall’Europa e dai relativi mercati, e soprattutto mal collegata con i punti di snodo delle merci: aeroporti, porti e autostrade. Tuttavia il Sud potrebbe giocare un ruolo da protagonista nella ricezione e smistamento delle merci provenienti da e destinati all’oriente, grazie alla sua posizione centrale nel Mediterraneo e al vantaggio temporale che questa rotta offre rispetto a quella nordica passante per i porti scandinavi. Politiche infrastrutturali più coraggiose e convinte, il potenziamento dell’intermodalità di trasporto (tramite l’ottimizzazione delle connessioni tra porti, aeroporti, ferrovie ed autostrade) e una strategia di sviluppo di medio periodo in questo settore potrebbero rappresentare un nuovo volano per l’economia meridionale e porre le basi per la costruzione di un proprio modello socio-economico che è sempre mancato al Mezzogiorno. D’altro canto, il Sud ha già nel CIS di Nola – il più grande polo industriale-commerciale d’Europa (oltre 600 aziende), nato dalle capacità e risorse di imprenditori locali – un modello “esportato” e studiato in altri Paesi. Vi è dunque luce tra le fitte ombre che oscurano l’economia meridionale.
3. Controllo mafioso dell’economia. La maggior parte delle imprese operano in nero e se sono regolari, sono comunque controllate dalla mafia. Risulta difficile non concordare con tale visione, una volta precisato il concetto di controllo mafioso.
La mafia non può certo essere ridotta, come generalmente avviene nell’immaginario collettivo, ad un corpo di gangsters che, armati, incutono terrore e tramite esso controllano il territorio e quindi l’economia. Chi ha letto Falcone sa che essa va invece intesa per quello che realmente è: una cultura condivisa, un modello organizzativo straordinariamente efficiente, che alle regole sociali che noi chiamiamo leggi contrappone regole non scritte, tuttavia più incisive poiché conosciute e condivise dai membri del gruppo. Una società chiusa che garantisce tutela e privilegi solo ai propri membri o a chi “volontariamente” ne chieda la protezione. E’ la negazione della meritocrazia, è l’esaltazione massima della “cultura dell’appartenenza”, secondo la quale si può o si è in grado di svolgere un determinato ruolo o ricoprire una determinata posizione solo se e poiché si appartiene all’organizzazione.
Se questa è dunque la mafia, duole affermare che, nelle nostre aree, tutto è controllato dalla mafia, dalla cultura mafiosa. Non vedo alcuna differenza tra i “signori” che con mitra e tritolo ti impediscono di condurre la tua attività e quelli che con giacca e cravatta decidono chi può ottenere le licenze edilizie, quelle commerciali e chi può avere accesso ai finanziamenti. Nella gran parte dei comuni del Sud la mafia ha il volto delle istituzioni, e le regole di giustizia che in altre aree d’Italia garantiscono tutela al cittadino dagli eventuali soprusi del potere amministrativo sembrano non trovare “cittadinanza” in una società sempre più divisa in due gruppi: i protetti e i disperati. Il potere amministrativo da servizio diventa potere coercitivo esercitato nei confronti della massa da asservire ai propri fini. Solo chi è vicino al potere, proprio come nelle organizzazioni mafiose, è destinato a ricevere “protezione” e privilegi.
Agli esclusi non resta che rassegnarsi alla disperazione derivante dall’impossibilità di far valere i propri diritti. Agli occhi degli appartenenti alla classe dei disperati la giustizia non può che apparire come diseguale e al servizio del potere. Da qui, l’imprescindibile condizione di totale asservimento e la convinzione della impossibilità di riscatto e alienazione da quella che, più che una condizione, sembra essere un’irreversibile realtà.
In questa società non vi è posto per la produttività; il criterio elettivo e selettivo non è il merito ma l’appartenenza, con ciò alterando i valori e principi personali che cedono di fronte a quelli collettivi, trasmettendo ai giovani il peggiore dei messaggi che possano ricevere: non conta quello che sei, quanto vali, ma solo con chi stai. Le regole, i sacrifici, la costruzione e realizzazione di se stessi sono tutti concetti astratti e che non garantiscono nulla. Punto di interesse non è più la persona in quanto tale, ma la sua appartenenza o meno al gruppo degli affiliati.
Coloro a cui resta la dignità, la fedeltà ai propri principi e il “vizio” della libertà sanno che di fronte hanno due opzioni entrambe difficili da sostenere: rassegnarsi ad appartenere alla classe dei disperati o riscattarsi e trasformarsi in gruppo di influenza.