La storia e il mito di Palinuro sono emblematiche. Nel libro VI dell’Eneide, Enea scende negli inferi, ove incontra il suo nocchiero disperso in mare, Palinuro. Egli racconta al figlio di Anchise di come le onde del mare lo abbiano cullato per tre notti prima che raggiungesse le coste dell’Italia, e che sarebbe riuscito a salvarsi ‘’se non ch'ignara e fera gente incontro, com'a preda marina mi si fece, e col ferro m'ancise’’ (ovvero, se una gente crudele non mi avesse ucciso col ferro). La gente crudele altro non erano che i nostri antenati. E’ forse – dunque – nel nostro DNA l’ostracismo e l’inospitalità (virtù tipiche del palinurese medio) nei confronti dello straniero, e in generale, verso tutto quello che può rappresentare una realtà estranea alla nostra? Deriva dall’antico mito che dette nome alla nostra terra la paura di ciò che è sconosciuto, l’atteggiamento di chiusura, l’attitudine viscerale alla xenofobia, il terrore di essere defraudati della propria terra? In fondo, la nostra piccola tribù vive ancora oggi di questi dissapori: la terra acquista a Palinuro il valore del sacro, al punto che profanare i diritti alla terra di Tizio e Caio riesce ancor oggi a scatenare piccole guerriglie dalle virtù tribali, divisioni in fazioni, dove i guelfi e i ghibellini cambiano continuamente i loro membri, e non arrivano ancora ad uccidersi solo perché oggi domina la paura della legge sull’efferatezza volgare dell’istinto omicida.
E’ vero, non siamo soli! Non siamo i soli a vivere nell’ombra, ad aver tradito il mito e il dolce sogno virgiliano, la speranza di una terra prospera e felice, dove si potesse danzare, coltivare, pescare, e sapere, soprattutto sapere. Le realtà di paese diffuse nel Sud Italia pullulano di questi esempi: posti meravigliosi, dove il mare sembra ridere di gioia a cullare gli scogli e le spiagge, dove è un piacere ascoltare la carezza del tramonto che nuota sulle onde fino a scomparire, e guardare i colori così speciali che annunciano la promessa d’una notte altrettanto speciale, e dall’arancio pian piano si fanno rossi e poi viola e poi più bui. Un noto poeta d’inizio Novecento, Giuseppe Ungaretti, quando si trovò a guardare il promontorio di Palinuro non seppe resistere dal commuoversi, e descrisse i colori delle onde e delle grotte con una tale delicatezza che quasi pare un tradimento quotidiano vivere qui un solo giorno senza sorridere e brindare alla sorte per il solo fatto di esserci. Come non provare meraviglia per i luoghi, gli spazi, i tempi, i colori, la natura, le acque, e il destino! Come non provare commozione nel ricordare le nostre radici, i nostri antenati greci e troiani, i nostri padri pellegrini, fondatori speranzosi nel nostro avvenire?
Eppure alla meraviglia e alla commozione fa da contraltare il disgusto per la gente e le tribù. Come un vizio classico degli isolani, i palinuresi vivono etnocentricamente il rapporto con la propria terra natale, e altrettanto fanno con le loro esistenze. Manca il confronto positivo con l’alterità, manca la conoscenza dell’altrove, di quell’altrove che non è Palinuro. Se da un lato questo provoca un maggiore carattere, un individualismo più marcato, e diventa quindi positivo nella misura in cui questo non danneggi gli altri; d’altro canto questi vizi fecondano una sensazione di impotenza, e allo stesso tempo un delirio d’onnipotenza. Non ha avuto a che fare, forse, ognuno di voi con uno di questi due tipi palinurensis? Il narcisista presuntuoso, che pensa di saper far tutto, e l’indolente impenitente, che ritiene di non poter far niente? Ah, ma questi non sono che vizi propri della natura umana. E’ l’isolamento, la non comunicazione, la non conoscenza (e, oserei dire, l’ignoranza), che provocano gli errori più atroci di un popolo. Se i Romani conquistarono mezza Europa lo fecero perché si dilettavano in filosofia e discorrevano di politica, andavano a teatro, facevano sport, conoscevano i propri limiti e i propri vizi, e facevano anche del vizio del bere troppo vino una virtù per il palato. Se i palinuresi non riescono a richiamare le radici antiche, la belle èpoque della fondazione di Palinuro; se i palinuresi sono rimasti inospitali e feroci come quando furono capaci d’uccidere un naufrago, se i palinuresi affidano il loro destino all’incapacità e all’ignoranza di governanti ciechi, è perché non si dilettano affatto di filosofia e politica, non vanno al teatro e al cinema, guardano troppa televisione (troppo Beautiful e Loredana Lecciso), e hanno troppa paura di bere il vino del vicino perché pensano sia avvelenato… Chi glielo doveva dire a Virgilio che saremmo rimasti gli stessi esseri meschini e codardi, nonostante tutti questi secoli? Siamo forse condannati al pentimento eterno solo perché lasciammo il cadavere del povero disgraziato Palinuro insepolto?
Abbisogniamo anzitutto di rimediare al male oscuro che ottunde la luce della mente e della verità, ovvero l’ignoranza. Purtroppo, di questi tempi (magri e immobili, fermi su se stessi), gli intellettuali di paese sono diventati i borghesi, quasi che il mestiere d’esser ricchi e del saper far soldi rappresenti la virtù e il simbolo della conoscenza, dell’attaccamento, della sensibilità dell’intellighenzia. E così, la terra diventa contesa dagli ominicchi di quartiere, venditori di immobili e banane, dottori, liberi imprenditori, mercanti d’arte, e impiegati pubblici che ignorano i principi base della democrazia, e si vendono ai cittadini come giusti difensori di cause sociali solo per raccattare uno stipendio fisso o un permesso. E così, per paura e invidia (invidere, che è anche un non riuscire a vedere) di coloro che realmente sarebbero capaci di fare, di agire, di cambiare (direbbe Aristotele, entrare nel dominio pratico per lasciare quello puramente teorico) – per paura di tutto ciò di cui abbiamo paura da secoli, ovvero dello straniero, del naufrago, dello sconosciuto – preferiamo restare immobili, fermi nell’ombra di governanti ciechi e che ci rendono ciechi.
Ma noi siamo una comunità, una polis, una società politica, e come tale dovremmo rispettare questi principi, ché l’uomo che non s’interessa alla virtù politica non è degno d’essere chiamato uomo. Aristotele li chiamava idioti, questi animali non politici, questi essere non interessati. Ebbene, se proprio vogliamo seguire l’esempio del greco, il nostro paese pullula di idioti! Perché pure coloro che paiono interessati al paese e alle sue sorti, altro non sono che ipocriti, uomini meschini che si nascondono dietro la farsa del bene pubblico per salvaguardare qualche altro interesse privato.
Secondo questa logica illogica anche i voti diventano falsati: tutti votano per quello che pensano farà il loro interesse, ma l’errore è che in verità nessuno dei candidati pensa mai all’interesse del cittadino, ma al suo proprio tornaconto. Allora capita che si vota per il cugino, il cognato, il vecchio compagno di scuola, nella speranza che finalmente sia arrivato il tempo di poter raccogliere qualche frutto con appena un voto. In verità, dopo che i cugini, i cognati, e i vecchi amici avranno fatto il giro delle case e il giro delle telefonate (e pensare che erano anni che non si facevano vivi!), dopo che cugini, cognati, nipoti, zii e amici avranno saputo da voi quello che volevano sapere (ovvero, che li voterete), state certi che il giro di case e il giro di telefonate finirà. Eh sì! Quando si avvicinano le elezioni, le case sono sempre piene, le mamme impastano le torte per raccogliere qualche raccomandazione, i dottori sono più gentili (capita addirittura che vi consiglino la giusta medicina!), il sindaco uscente asfalta le strade e le nasconde alla loro indecenza con luci e balocchi, e s’aprono le danze (ovvero, iniziano a crearsi i valzer delle future coalizioni!). Dopo aver capito che una destra divisa a metà vale poco meno di un cecio, riuscirà a stipularsi (sotto Natale) una nuova santa alleanza?
Non lasciatevi ingannare dalle lucine di Natale (e a proposito, c’è una donna a Palinuro che già si prepara alla sfida natalizia delle luci, e continua ad addobbare la sua casa), e dal grande fuoco in piazza! Quel giorno riceverete più auguri del solito, e più sorrisi: non si tratta di bontà cristiana, ma di propaganda politica. Eccoli, i sant’uomini del popolo tutti in fila, giacca, cravatta e martello nascosto; tutti in lizza per il giudizio finale. In fondo, è pur vero che il giudizio spetta a noi, solo a noi. Ma una preghiera natalizia me la concederete.
Non votate per chi ve lo chiede (si tratta della peggior razza!). Non votate per i cugini, e gli amici o i parenti, se li ritenete – riprendendo Aristotele – idioti, meschini, brigadieri della falsità. Non votate per i potenti, solo perché sono potenti; e per gli stolti, solo perché sono stolti. Che razza di ragionamento è? Il voto è un’opportunità, un’occasione per esprimersi: non dovete votare colui che credete farà il male minore, ma colui che ritenete capace di agire! di fare! di realizzare! (parliamo di pratica, parliamo di decenza, parliamo di azione e dignità!). Ah! Ma che ve lo dico a fare! A voi che credete che coloro che sono capaci siano cattivi, bruciati dall’avidità e dall’ambizione! Voi che siete invidiosi di coloro che sanno agire, perché non sapete agire, non avete risorse per agire – tutt’al più sapete chiedere favori, preparare torte, restare in silenzio perché conviene più che parlare, rinnegare il voto perché un momento dopo ne provate vergogna!
Ma la vera vergogna è scegliere l’incapacità, solo perché si ha la presunzione di credere che l’incapace può essere governato, seguito, e che il capace farà – fino in fondo – di testa sua! E’ un’illusione anche questa: una volta scelto non si torna indietro, e per noi cittadini non c’è alcuna possibilità di ostacolare l’incapacità umana che si mette in testa di avere ragione. Il torto è anch’esso convinto di essere nel giusto. Eppure parrebbe una baggianata anche per un bambino delle elementari: scegliere tra la capacità di un uomo ambizioso e l’incapacità di un roditore che continua a mangiare alla faccia dei propri errori!
Per concludere, vorrei fare una considerazione: è l’ambizione a rendere l’uomo capace, poiché se non si ha la presunzione di agire neppure s’agirà mai. Gli esseri non ambiziosi, coloro che si contentano di tirare a campare, coloro che trascurano il proprio interesse e l’interesse degli altri, sono uomini senza palle: sono la larva della società, coloro che meritano di essere emarginati, perché contribuiscono allo sfacelo, al ritorno al passato, alla fine del progresso. Sono esseri così meschini che per vivere si contentano di lasciarsi vivere dagli altri, incapaci di ambire al meglio, nuotano nel peggio per convenienza. Dante li chiamava ignavi, li faceva bruciare all’inferno, e li riteneva peggiori dei traditori e degli omicidi. Noi li chiameremo cecini, ovvero figli del cecismo, uno dei due mali che affondano nella natura primordiale del palinurese. L’altro è la cecità: il non vedere, o far finta di non vedere per paura e codardia.
Liberatevi di cecità e cecismo e avrete fatto un passo avanti rispetto a quando uccidevate gli stranieri e vi sbranavate per le terre. Almeno la vostra dignità di vivere sarà salvata.
Testimonianza raccolta e sottoscritta da Alfredo Gabriele.