L’INSURREZIONE DEL 1828 NEL CILENTO
Dopo
la repressione dei moti costituzionali del 1821 nel napoletano, che avevano
portato all’abolizione del testo costituzionale ed all’imprigionamento dei
deputati e dei militari che avevano sostenuto il processo democratico, vi fu un
periodo di apparente pace, anche se il fuoco continuava a covare sotto le
ceneri. In particolare il problema più grave che il ministro Medici doveva
affrontare era il banditismo; problema di difficile soluzione anche per
l’appoggio delle popolazioni. I briganti infatti, si presentavano come i
campioni della giustizia ed i vendicatori dei torti e dei soprusi sofferti dai
poveri e dai contadini. Anche la Carboneria , secondata dal basso clero, li
aveva infatti usati spesso in azioni di guerriglia. Nel 1826 finalmente gli
austriaci si decisero a ritornare in patria mettendo fine ad un’onerosa
occupazione che era durata sei anni e che era pesata gravemente sul bilancio
dello Stato delle Due Sicilie. Di questa situazione approfittarono le sette per
riprendere più efficacemente la loro azione. Una di queste affiliazioni, quella
dei Filadelfi, insieme a varie vendite della Carboneria, decise di promuovere
l’insurrezione tra il 25 ed il 26 giugno nel Cilento, nonostante che a Napoli
uno dei capi, un certo Gallotti, imprudentemente confidatosi con una spia, fosse
stato denunciato e la sollevazione spenta sul nascere. Nonostante ciò il
canonico De Luca decise lo stesso di dare il via all’insurrezione. Egli riuscì a
racimolare circa 700 uomini, spronati dall’idea che ci sarebbero stati ingenti
aiuti dell’esercito francese a sostegno della sollevazione. Chi avesse propalato
questa panzana non si sa, ma certo è che questa voce ebbe un forte peso nel
reclutamento degli insorti. Sempre un’altra voce, anche questa non veritiera,
sosteneva che nel forte di Palinuro si custodivano 1500 fucili, 12 cannoni e
molte munizioni. Gli insorti disarmarono prima le milizie di Centola e con
queste marciarono contro il forte che, quando cadde nelle loro mani, non dette
che qualche schioppo arrugginito e della polvere inutilizzabile. Lo stesso
giorno gli insorti occuparono il paese di Foria, dove trovarono vari
simpatizzanti ed in seguito si diressero verso il villaggio di Camerata, dove,
sopraffatte le guardie, s’impadronirono della località al grido di: "Viva la
Costituzione, Viva la Libertà". Da Napoli il Re,. su consiglio del ministro
Medici, inviò per schiacciare la rivolta il maresciallo Del Carretto. Costui era
stato un ufficiale murattiano, carbonaro ed aveva preso parte ai moti del ‘21.
In seguito era riuscito a non farsi epurare, dicendo che aveva partecipato
perché costretto ai moti costituzionali e che in realtà aveva dall’interno
sabotato le azioni dei congiurati. Con questo passato pesante egli ci teneva a
dar prova della sua nuova lealtà ed infatti si comportò in modo spietato,
specialmente nei riguardi del paese di Bosco, che, avendo alloggiato e rifornito
gli insorti, fu raso al suolo e gli abitanti deportati. Intanto gli insorti,
saputo che del Carretto aveva già sbarcato delle truppe sulla costa e che al
comando di 8000 uomini si apprestava ad investire il Cilento, non avendo armi a
disposizione, decisero di sbandarsi e di rifugiarsi nei boschi. Un poco alla
volta, sia per la caccia infaticabile a cui erano soggetti, sia per le spie ed i
delatori, i congiurati vennero catturati. Tra i primi vi fu il canonico De Luca
e suo nipote, anche lui sacerdote. Non fu facile per del Carretto trovare un
prelato che spogliasse i due religiosi, in quanto tutti i vescovi locali si
rifiutarono, chi per un motivo chi per un altro. Alla fine il vescovo di Salerno
accettò di compiere la vergognosa bisogna ed i due, dopo una farsa di processo,
furono fucilati e le loro teste insieme a quelle di altri 17 compagni furono
esposte nei paesi della regione. Il Gallotti ed i fratelli briganti Capozzoli,
che avevano partecipato all’insurrezione per volontà del canonico De Luca,
essendo più esperti dei luoghi, riuscirono a far perdere le loro tracce e a
rifugiarsi nei domini pontifici e di qui in Corsica, ma anche di là dovettero
fuggire perché il governo francese minacciava di consegnarli al Borbone. Fu così
che ritornarono dopo circa un anno nel Cilento, dove, traditi, vennero catturati
dopo una strenua resistenza e giustiziati. Il Gallotti, che non era un bandito,
ma un vero rivoluzionario, rimase in Corsica e fu catturato dai francesi e
consegnato al governo napoletano. Sennonché il fatto fu denunziato da un
deputato francese al parlamento di Parigi, determinando uno scandalo che
costrinse il governo di quel paese a far pressioni su Napoli affinché al
Gallotti fosse risparmiata la vita. Fu in questo modo che al Gallotti venne dato
un foglio di via per uscire dal Regno di Sua Maestà Siciliana e scampare la
morte. Si chiuse così nel sangue l’insurrezione del Cilento del 1828, ma, come
scrisse l’ambasciatore britannico Sir Noel Hill, "L’impopolarità del sovrano
aumenta pressoché ogni giorno ed il partito liberale accomuna a Sua Maestà il
suo figlio primogenito, Duca di Calabria, il futuro Ferdinando II, come
partecipe di questa severità".
Francesco Pavolini