7 aprile 2022

L'esperienza enologica nella civiltà romana * 

di Walter Iorio

All'interno del contesto mediterraneo la penisola italiana, protendentesi longitudinalmente da Nord a Sud, segnava il crocevia di genti e civiltà differenti che, attratte dalla mitezza del clima e dalla feracità del suolo, si insediarono nelle sue contrade interagendo, in epoca storica, con le popolazioni autoctone e operando da catalizzatori di cultura e di progresso.   E, come spesso accade, la prima attività decisiva ai fini del sostentamento materiale fu l'agricoltura, la quale prometteva raccolti davvero generosi, frutta abbondante, ortaggi copiosi, cereali più che bastevoli e infine tanta, tanta vite: una pianta straordinaria per le risonanze esplicite e implicite della sua coltivazione e della produzione di quell'oro rosso (ma anche giallo e di altro colore) che sarebbe poi stato il vino.

Non a caso uno degli appellativi più comuni della toponomastica tradizionale con cui si designava l'entità geografica meridionale d'Italia era Oenotria tellus(1), ovvero la terra degli Enotri, una comunità di uomini particolarmente esperti nell'attività della viticoltura e nell'arte stessa della vinificazione già intorno al IX -VIII secolo a.C.(2).

La successiva vicenda storica di questa etnia e di altre genti italiche dové poi fare i conti con la conquista romana che in breve ne oscurò la memoria e sancì la preponderanza politico-militare della città dei sette colli. 
Roma, dunque, forte dei successi puntuali dei suoi eserciti, impresse a questi territori la sua organizzazione sociale e materiale ma fece propri anche elementi di una cultura non autenticamente nazionale e, relativamente ad aspetti materiali della vita, incorporò esperienze e tecnologie di quell'arte della vinificazione che tanta parte ebbe nella delineazione della sua storia civile e che aveva ereditato da popolazioni di volta in volta sottomesse come in seguito anche gli Etruschi e infine i Greci.
Inevitabilmente questa bevanda, già da tempo rinomata, esercitò un’influenza notevole sulla mentalità e sui costumi dei nuovi signori dell'Italia: elevati, infatti, i suoi costi e riservata essa stessa ai pater familias dell'età arcaica, meritò un'attenzione particolare sin dall'inizio della sua storia.
Ci si preoccupò, per esempio, di trattarla con acqua calda perché non se ne disperdessero né il sapore né la flagranza; e, con un po' di furbizia contadina, ai convitati veniva servita in tavola la migliore fra quelle disponibili poco prima dei pasti ma, appena brilli e facilmente ingannabili, li si accontentava con un'altra di minore pregio. Perché, inoltre, il simposio non degenerasse in situazioni sconvenienti, ci si premuniva dai suoi effetti soporiferi o eccitanti: si nominava anzi fra gli invitati, un arbiter bibendi, ossia un giudice di bevuta, che vegliasse sul decoro della riunione, astenendosi egli stesso dall'assumerne in dose eccessiva e decidendo la quantità di acqua da versare nelle coppe, anche in rapporto alle abitudini degli invitati. 
Nei secoli successivi e ancora di più in età imperiale, il contatto con altre civiltà vitivinicole giovò molto alla sorte del vino che, infatti, iniziò ad apparire anche in locali di consumo e nei pressi di taverne, dove, a quanto pare, si aggiravano anche professioniste dell'arte amatoria in vista del … dopocena o del dopobevuta. In particolar modo entrarono in esercizio gli oenopolia ossia negozi deputati alla vendita specifica del prodotto e i thermopolia, antichi progenitori delle odierne tavole calde, dove si servivano anche pietanze calde.
Studi recenti sulla civiltà romana delle origini attestano che, per quanto nella provincia gallica prosperasse da tempo un'intensa attività vitivinicola, nel territorio italico e romano le autorità consentissero soltanto un uso moderato di questo soave nettare di uva: infatti non si tramandano, nella vicenda culturale e civile dell'età repubblicana, casi frequenti di ebbrezza, che certamente ci furono, ma che, statisticamente, dovettero semmai rappresentare un fenomeno marginale e sporadico.

Il consumo di bevande alcoliche in senso lato iniziò invece a fare parte del costume sociale dell'età imperiale che fece i suoi esordi politici all'indomani della scomparsa di Cesare Ottaviano Augusto del 14 d. C., e nel corso della quale si identificò il dio greco Διόνυσος con il romano Bacchus altrimenti nominato Liber3).

C'è un sottile filo rosso, dunque, un'associazione binaria tra la vocazione espansionistica delle genti romane e la diffusione della vite e del vino: spada e vigna diventavano allora manifestazioni usuali dell'immaginario collettivo romano in tutti e quattro gli angoli di uno stato già molto dilatato e comprensivo dei territori ispanici, gallici e britannici di più recente conquista.

Per buona sorte sull'argomento offre notizie preziose la biblioteca digitale(4) della quale si riportano informazioni preziose e qui testualmente riprodotte in scriptio minor:
“La viticoltura si allargò talmente da costringere l'imperatore romano Domiziano a fare promulgare nel 92 le prime leggi espressamente rivolte al vino, proibendo l'impianto di nuovi vigneti nella penisola italiana e facendo sradicare una buona metà di quelli presenti nelle province; questo per aumentare la produzione di grano, più necessario ma meno redditizio.  La misura intrapresa fu ampiamente ignorata pur rimanendo nei codici fino alla sua abrogazione da parte di Marco Aurelio Probo nel 280. La tecnologia vinicola migliorò notevolmente in questo periodo. Marco Vitruvio Pollione (I secolo a.C.) notò come gli ambienti di stoccaggio dei vini fossero appositamente costruiti guardando la direzione Nord dal momento che non è mai soggetto a cambiamenti climatici notevoli, rimane anzi assai costante(5), mentre speciali fumaria (camere di affumicatura) vennero sviluppati per accelerare o imitare l'invecchiamento.
Durante tutto questo periodo la vinificazione, ottenuta principalmente con uve nere, era priva di macerazione; pertanto, i vini erano come ai primi giorni dell'antichità di colore chiaro. Il succo veniva generalmente raccolto dopo una semplice spremitura e la pressatura era immediata. I torchi vinari erano noti già da molto tempo ma costituivano dei macchinari pesanti e molto costosi, per cui ben poche cantine potevano permettersi di possederli. I più ricchi, meglio attrezzati, avrebbero potuto pressare dietro richiesta dei meno abbienti; ma dietro un pagamento ritenuto a volte troppo oneroso.                                                                    

Ma il vino rosso è effettivamente esistito, le scoperte archeologiche lo hanno dimostrato. Uno dei più grandi esperti mondiali di vini antichi, André Tchernia, nel corso degli anni 1970 è stato in grado di far recuperare un relitto al largo della Penisola di Giens sulla costa di Varo. Dopo aver datato il suo affondamento al 70-25 a.C. ha riferito: sul relitto ho trovato molte anfore, ancora chiuse col loro doppio sigillo di sughero o pozzolana. Esse contengono un liquido che all'analisi è risultato essere vino, ma completamente decomposto. Per il resto il liquido era incolore e mischiato con acqua di mare. Al suo fondo si è depositato un fango rossastro che sembrava di finissima argilla. Era asciutto, un estratto di vino completamente separato dalla fase liquida(6).

Furono create molte varietà diverse di uve e di tecniche di coltivazione. Le botti di legno inventate dai Galli e le bottiglie di vetro (opera dei siriaci) cominciarono a competere con le anfore fatte di terracotta per la conservazione e la spedizione. I luoghi di pressatura/pigiatura si diffusero come locali interni alla villa romana.

I Romani inventarono anche un precursore dei moderni sistemi di denominazione, poiché alcune regioni riuscirono a guadagnarsi una certa reputazione nella produzione di vino pregiato; il più famoso fu il Falerno bianco della zona di confine tra il Latium la Campania antica, principalmente a causa della sua alta gradazione alcolica (all'incirca 15°).

Si riconobbero tre denominazioni: il Cauciniano Falerno delle pendici più alte, il Faustiano Falerno del centro (così chiamato dal nome del suo proprietario Fausto Cornelio Silla, il figlio di Lucio Cornelio Silla) e il Falerno generico dei versanti inferiori e della pianura. Le annate migliori crebbero in valore tramite l'invecchiamento ed ogni regione ne produceva diverse varietà; asciutto, dolce o leggero. Altri vini celebri furono Hadrianum di Atri sull'Adriatico, l'Albano dei Colli Albani e il Cecubano amato dal poeta Quinto Orazio Flacco e fatto estirpare da Nerone. Plinio il Vecchio avvertì che tali vini di prima crescita non venissero affumicati come quelli delle annate minori. Forse mescolato con erbe e minerali, il vino venne anche fatto assumere per scopi medicinali.

Il ceto sociale superiore avrebbe potuto anche far sciogliere una perla nel vino per poter ottenere una guarigione o un miglioramento nella salute. Cleopatra VII creò la propria imperitura leggenda promettendo a Marco Antonio di bere il valore di un'intera provincia romana, dopo di che bevve una perla preziosa sciolta in una tazza da vino.
Plinio narra che dopo l'ascesa al potere di Augusto il Setinum divenne l'unico vino di corte in quanto solo questo tipo non causò un'indigestione all'imperatore. Altri vini, tuttavia, composero il quadro vinicolo del periodo: bianco, vermiglio o nero, il vinum rubelum ottenuto grazie ad una macerazione più lunga.

Va infine anche notato il fatto che, messa da parte l'Italia, le uve siano state per secoli soprattutto nere.

Quando l'Impero Romano d'Occidente cadde, nel V secolo, l'intero territorio europeo entrò in un periodo di turbolenze sociali a seguito delle invasioni barbariche, con la Chiesa Cattolica apostolica romana come unica struttura civile stabile; fu proprio tramite la Chiesa che la tecnologia vinicola e la viticoltura in generale, essenziali per la celebrazione della Messa, riuscirono a preservarsi intatte.

La più antica bottiglia sopravvissuta che ancora conteneva vino liquido, la bottiglia di vino Speyer, apparteneva ad un nobile romano e risale al 325 o tutt'al più al 350. L'istituzione ecclesiale mantenne all'interno delle proprie diocesi la cultura della vite e del vino, diffondendone la sua commercializzazione. Il vigneto si diffuse regolarmente in ampi strati del tessuto sociale europeo, aiutato in ciò dall'estendersi sempre più degli ordini monastici.

Nella preservazione della viticoltura in particolare si distingue l'opera meritoria dei monaci di San Colombano, che introdussero il nuovo tipo di vinificazione odierna in uso ai popoli celtici, i quali producevano vini leggeri e dissetanti e li conservavano in botti di legno.

Opereranno in tal senso fin dal VI secolo in tutta la Francia merovingia iniziando dall'abbazia matrice di Luxeuil, presso i Longobardi nel centro-nord Italia dal VII secolo, e soprattutto in epoca carolingia, facendo della potente Abbazia matrice o di Bobbio (attivissimo centro di evangelizzazione e di rinascita agricola sotto la protezione del Papa), fondata dal santo abate irlandese Colombano nel 614, un centro monastico di primaria importanza europea per tutto il medioevo grazie al suo ricco e vasto feudo reale ed imperiale monastico”. Ma questi particolari porterebbero fuori dal contesto temporale predesignato.

Da quanto sopra riferito, emerge chiara e manifesta l'indole agricola della storia e della società di Roma antica che trova conferma in manifestazioni puntuali della sua vicenda civile e politico-militare.
Fra le più antiche espressioni della sua letteratura figurano iscrizioni tanto remote da perdersi nella notte dei tempi ma fortunatamente pervenute alla conoscenza dell'odierna umanità, pur non aliene dal pericolo della contraffazione. Così è oggi possibile leggerne qualcuna come, per esempio, quella proveniente da Civita Castellana e recitante testualmente

oggi berrò vino, domani non ne avrò

Il testo, scritto nei modi di una paratassi infantile, nella quale si susseguono, una dopo l'altra e con spontanea immediatezza, due idee e due proposizioni ingenuamente coordinate, cela tuttavia un significato recondito, come a dire la riflessione esistenziale di chi lo avrebbe inciso.

Come, infatti già osservato in altre civiltà del passato, anche in questi ambienti rurali del Lazio antico si credeva a una correlazione tra la fecondità del suolo della vite e la prolificità della specie umana e quanto meno si associava l'immagine del vino a esperienze di gioia e di letizia: la mancanza, pertanto, di questo liquore veniva per converso intesa come assenza o impossibilità di vita al punto che il futuro carebo, ovvero ne sarò privo, acquista qui il significato di moriar, ossia morirò, proprio come, al contrario il futuro (anteriore) raddoppiato pipafo = bibam nella dizione classica, significa avrò bevuto che ben rende l'idea di una precaria, effimera, momentanea felicità materiale. 

In progresso di tempo la materia agricola, divenuta ormai disciplina prioritaria e distintiva della società romana dei secoli II-I a.C., e in qualche misura anche vitivinicola, fu trattata da

Marco Porcio Catone, De agricoltura, Praefatio, II, 7, 56

[…] quando avranno iniziato a zappare la vigna, cinque libbre di pane fino a quando avranno cominciato a mangiare fichi. […]

che prescriveva la razione alimentare da accordare agli schiavi incatenati durante la stagione invernale, secondo un criterio disumano di sfruttamento della manodopera servile e un istinto radicato di spilorceria. Il peggio è che, in quel tempo, egli fosse stimato e indicato come campione e palladino della morale dei Romani!

E ancora ibid. I-2:

[…] venda il vino e il frumento in eccesso […]

che conferma l'indole venale e sparagnina del proprietario terriero e il modello etico di un'economia aliena da sprechi e vocata al guadagno.
E infine ibid, 109:

Se da acre e soave il vino lo vorrai rendere leggero e soave farai così: produrrai farina dall'ervo per quattro libbre e cospargerai quattro ciati con acqua. Farai poi dei mattoncini, li lascerai a bagno un giorno e una notte. Poi li mescolerai con il vino del doglio e li tapperai per sessanta giorni. Quel vino sarà leggero e soave e di buon colore e di gradevole aroma.

dove, ancora una volta la preziosa bevanda è al centro delle attenzioni di chi la produca.

In termini un po' diversi ne trattò anche, in una certa misura Valerio Anziate, Annales,

                                                                      Fr. 6P:

[…] Ma perché la cosa accadesse, il re fece riempire di vino e miele non poche tazze e collocò nei pressi dell'accesso alla fonte un inganno insidioso per quelli che stavano per giungervi. Essi, presi, come per solita abitudine, dal desiderio di bere, vennero al noto luogo ospitale. Ma, avendo disprezzato le tazze fragranti di liquori odorosi, preferirono i più antichi alla novità, vi si precipitarono sopra avidamente e, sedotti dalla dolcezza della bevanda, ne assunsero più del troppo e appesantiti dal sopore, sprofondarono nel sonno. […]


Lo scopo di questa favola è però del tutto differente perché qui il re Numa Pompilio, intendendo conoscere un modo per espiare i fulmini di Giove, nascose dodici giovani ancora inesperti dell'amore presso una fonte, armandoli di catene per aggredire Fauno e Marzio Pico. Destati dalla bevanda nuova che li aveva addormentati, spiegarono al sovrano come si potesse attirare il padre degli dèi sulla terra per acquisirne il rito di espiazione. Il finale è alquanto… esilarante; ma è evidente, anche in questo contesto, l'allusione al potere ambiguo, seduttivo e fuorviante del vino e alla sua duplice azione sulle sorti umane.
All'attività agricola legò il proprio nome anche
Marco Varrone Terenzio Reatino, nel
                                                         De re rustica, I, 1 passim:

[…] al cui nome furono intestati i Vinalia […]
[…] quale vino (paragonare) al Falerno? […]

E ibid., II, 1

[…] e preferirono battere le mani al teatro e al circo piuttosto che per le messi e i vigneti; il frumento lo acquistiamo noi che ne alimentiamo dall'Africa e dalla Sicilia e cui tocca stivare nelle navi la vendemmia proveniente dalle isole di Cos e Chia […]

In questo inserto si coglie il segno di una recriminazione pensosa per le abitudini che mutano il costume dei capi di famiglia ora propensi al diletto del teatro e del circo e non piuttosto, come in passato, alle attività rurali, da sempre remunerative e culturalmente identitarie.

Amplificando l'indagine sugli aspetti materiali dell'enologia romana, non può sfuggire la  preponderanza del vino in tante ricette della gastronomia tradizionale che ebbe la sua codificazione più celebrata nel De re coquinaria di Marco Gavio Apicio, che, nella sezione intitolata Epimeles, studiava i migliori abbinamenti possibili fra piatti e vino di accompagnamento, mentre su di un piano più intenzionalmente scientifico si collocava la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio che in XIV, 51-60 e 88-91, illustrava rispettivamente la storia e le caratteristiche dei principali vini italici (e massimamente del Cecubo e del Falerno del Mezzogiorno della Penisola) e collegava grandi personaggi del mito e della storia di Roma a singolari aneddotti enologici.

Ma il vino poteva divenire anche una realtà ingombrante e ingestibile per la vita pubblica del secolo III-II a.C., quando, progressivamente prendendo piede i culti orgiastici dall'Oriente in cui si celavano talvolta striscianti opposizioni alla politica dell'Urbe, dovette intervenire il Senatus Consultum de Bacchanalibus per disciplinarne le cerimonie o addirittura impedirle, come si è detto in precedenti articoli.

Tuttavia, come già nel mondo greco e presso antiche civiltà, il vino divenne protagonista di momenti importantissimi della vita associata dei Romani, sin da epoche più remote, quando, per esempio, esordì sulla scena storico-letteraria come elemento principe di carmi convivali, nel corso dei quali le famiglie patrizie coglievano l'occasione di “celebrare” i propri antenati ”durante i banchetti, quando a turno i convitati”, ricreantisi al suono del flauto, li “intonavano in onore dei loro grandi eroi.”(7).

Nel mondo privato della poesia del II-I secolo a.C. invece il vino accompagnava i momenti pieni del vivere quotidiano: l'esaltazione erotica, come in Tito Lucrezio Caro (secondo cui la forza sconvolgente del vino penetra l’uomo e nelle vene sparge e distribuisce l’ardore) (8) oppure la gioia delle amicizie, o anche il fervore delle contese letterarie ovvero la riflessione esistenziale, come si legge nel canzoniere di
                                                                                                                       
                                         Gaio Valerio Catullo, carmen XIII, vv. 1-5

Cenerai bene, Fabullo mio, da me
fra pochi giorni, se gli dèi ti sono propizi,
se con te avrai portato da mangiare buono
e in abbondanza, non senza una ragazza bella 
e con vino e sale e tutte battute salaci […]

Qui il vino, svuotato di significati liturgici e celebrativi, è solo l’occasione di un incontro fra amici di buona famiglia, spensierati e dediti allo studio o al culto dell'amore; e certamente promette emozioni piacevoli da godere in buona compagnia.
Anche in
                                                             carmen L, vv. 3-6

[…] scrivendo versetti, ciascuno di noi
si divertiva ora in questo metro ora in quell'altro
[…] alternando botta e risposta fra vino e tutte battute salaci […]

se ne coglie conferma. 

Ma non sempre l'ispirazione poetica rimane circoscritta all'ambito delle frivolezze e della convivialità, perché altrove il termometro situazionale sale di temperatura a rappresentare riflessioni più alte come in

                                                                           carmen LXII, vv. 49-57

Come vite che, vedova, nasce in spoglio campo
mai si leva in alto e mai tira fuori la dolce uva
ma flettendo il gracile stelo per il peso che vi grava
quasi quasi sfiora con la radice la sommità del tralcio;
questa nessun contadino, nessun giovenco ha mai curato:
ma se per avventura la medesima si congiunse a un olmo come
così la vergine finché rimanga pura allora invecchia incoltivata;
quando in età giusta raggiunge il pari connubio
la vergine è più cara e meno invisa a chi l'ha generata […]

In questi ultimi versi il tono è certamente disteso e moderatamente celebrativo della felicità di due giovani pervenuti al matrimonio; ma la condizione della sposa è resa mediante il paragone agrario della vite che si appoggia all'olmo quando non confortata dalle cure del contadino e che tanto riecheggia di suggestioni catoniane (De agri coltura, 32, 2: Arbores facito uti bene maritae sint: pianterai delle piante in modo che si intreccino bene) e anticipano felici prescrizioni di Lucio Giunio Moderato Columella, De re rustica II, 2, 79: ulmi quoque vitibus recte maritantur: anche gli olmi si intreccino bene alle viti). Un inserto delizioso e di semplice ma di robusta ispirazione lirica che ben equilibria l'esibizione erudita dei carmina docta.

Ma la consacrazione della vite e del vino avviene nel pieno classicismo dell'età augustea, pur sospinta da motivazioni, esigenze e interpretazioni differenti, quando, per merito di Quinto Orazio Flacco, in capite, poi di Publio Virgilio Marone e di pochi altri grandi poeti ancora, si alimentò un autentico sentimento enologico, quasi un'ideologia dell'esistenza scandita dalle molteplici declinazioni di qusta bevanda fortemente identitaria.

Nel magistero culturale del Venosino sono infatti evidenti i segni di una sapienza contadina acquisita dagli insegnamenti paterni (che egli accoglieva negli esametri della Satira II, 4 passim) e scaturita dal confronto con le situazioni reali del vivere: quei documenta, cioè, quegli ammaestramenti che gli avrebbero dischiuso da adulto le porte della sapientia, un valore ben più alto del buon senso ma a esso legato.

Basti leggere, per esempio, fra le tante sue opere, l'

                                                          Epodo 9, vv. 1-5 e 33-36                   

Quando, lieto per la vittoria di Cesare,
berrò del Cecubo con te
nella grande casa (cosa gradita a Giove) per conviti solenni, 
felice, Mecenate?

Pur nella semplicità, tutta classica, della dizione e del senso della vita, il vino Cecubo, il più rinomato e caro all'anima romana, è più di una fraterna sollecitazione conviviale, come del resto nell'ode di chiusura del primo libro qui di seguito parzialmente trascritta:

                                                            Ode I, 38, vv. 6-8

[…] né a te che servi
è sconveniente il mirto né a me che bevo
sotto la folta vite.

dove il ritmo lieve ed elegante della dizione è il riflesso di uno statuto poetico e morale acquisito sul campo delle esperienze molteplici del vivere quotidiano. Ma leggendo al fondo delle parole dell'epodo, il momento privato non è affatto disancorato dall'attualità civile, che celebra in verso l'importante vittoria di Ottaviano nella nefasta guerra civile fra i capi della politica romana.

L'occasione del bere è qui una motivazione legittima e sospirata per tirare il fiato dopo anni di guerre intestine che hanno sacrificato il fior fiore del sangue romano su teatri intercontinentali di battaglia. Ma questa esperienza drammatica, destinata a impressionare radicalmente gli umori del momento, ispirerà ancora altri versi, come si vedrà a breve.

Una diversa intenzione morale è il fondamento dell'

                                                          Epistola 1-18, vv. 91-93

[…]  I bevitori di Falerno fino a mezza notte
detestano chi nega l'offerta di tazze
benché tu giuri che i tepori notturni ti spaventino […]

in cui c'è il monito a non eccedere nell'alcool e, maggiormente, nel consumo di questo vino non sostenibile da tutti: un vino responsabile frequentemente di episodi di intemperanza quando si deroghi dal sano senso della misura. Ma la preventiva e amichevole confessione dell'indisponibilitità di un vino migliore e la moderazione suggeriscono o giustificano anche l'uso di vini meno pregiati come si legge in

                                             Epistola 1, 5, vv. 3-5, 19-20 e 23-24

[...] Berrai vini travasati dal secondo consolato di Tauro
tra la paludosa Minturno e Petrino di Sinuessa […]
chi non hanno reso eloquente coppe generose,
chi non libero invischiato in una indotta povertà?   (…)
e che il cantaro e il vassoio
[…] riflettano te su di te, che tra amici fidati  
non butti fuori le parole che sono state proferite […]

una lettera che “non ha il tono scapigliato dell'invito catulliano (carm. 13) anzi presenta uno stile contenuto, controllato, elegante; è un invito a bere fatto a persona di riguardo, con cui però si ha tanta confidenza da poter dire che modesto sarà il desinare, anche se ricco di spensieratezza” (9) ma è anche una lirica dove, tuttavia, si allude a una convinzione diffusa negli ambienti romani di sempre (ma anche greci, in verità, anzi, forse, di più), per la quale il vino riveli verità inconfessabili come i disegni segreti di chi non li riveli.

Un'eco vaga di questa situazione è evocata pure in

                                                                  Ode I, 20

Berrai del modesto Sabino in piccole
tazze, che ho suggellato io, riposto
in anfora greca quando in teatro
ti fu tributato l'applauso,
caro cavaliere Mecenate, al punto che le rive
del fiume paterno e insieme la giocosa
eco del colle Vaticano   ripetevano le lodi
del Cecubo e uva pigiata da torchio Caleno
lo berrai tu: né viti Falerne né colli
Formiani riempiono
le mie tazze.                                                                                             

dove il vino è promotore di amicizie, ma esso ha anche altre valenze, come si evince dalla lettura di testi affini come l'

                                                              Ode I, 7, vv. 18-20

                                                                                                                        
[…] ricordati di porre fine 
alla tristezza e agli affanni
o Planco, con dolce mero sia che ti accolgano accampamenti
splendidi di insegne […]

in cui la saggezza raccomanda la moderazione del bere come remedium malorum, come antidoto alle sofferenze momentanee della vita e come pure è data di inferire da quella dell'

                                                              Ode I, 9, vv. 7-8                                                    

[…]  spilla o Taliarco un vino mero
di quattro anni dall'anfora a due orecchie della Sabina […]

che davvero è una delle più alte creazioni poetiche della civiltà occidentale per la nobile rappresentazione di una morale conforme alla mutabilità della condizione umana: un capolavoro dell'arte romana! E non da meno, anzi, tutt'altro, è la monumentale

 Ode I, 11, v. 6

[…] sii saggia, filtra i vini […]

che sarebbe forse opportuno non commentare per non invalidarne la ieratica stringatezza ma di cui, tuttavia, si desidera porre in evidenza il significato profondo del primo verbo, che riproduce una visione della vita confortata dal buon senso e dall'esperienza concreta del vissuto e, naturalmente, il vino che una donna bella e colta come Lalage saprà offrire agli amici commensali.

Ma la dimensione quasi privata di questi asclepiadei maggiori è superata da questi altri versi dell

Ode I, 18, vv. 1-13 

Nessun arbusto pianterai prima delle vite sacra
intorno al dolce suolo del Tevere e alle mura di Catilo.
infatti agli astemi il dio ha riservato tutte sciagure né  
altrimenti disperdono preoccupazioni mordaci. 
Chi dopo il vino sparla della dura milizia o della povertà.
Chi non parla piuttosto di te, padre Bacco, e di te, o graziosa Venere? 
Ma perché nessuno ecceda nei doni di Libero  
è di monito la rissa dei centauri con i Lapiti combattuta
sul vino, è di monito l'Euio non benevolo ai Sitonii, 
quando il lecito e l'illecito delle passioni distinguono
avidi con limite sottile. Non te, candido Bassareo,
scuoterò contro voglia né le cose nascoste sotto diverse 
fronde trascinerò sotto il cielo […]

che è un ammonimento privato e una prescrizione pubblica al tempo stesso: un'accorato invito identitario e religioso inteso alla celebrazione della pianta italica per eccellenza e all'osservanza del culto del più generoso dio romano, congiunto a quello di Venere che, attraverso l'amore, genera la vita e assicura nuove generazioni di Romani. 
Ma tutto deve avvenire nei termini della moderazione, la virtù che consente di discernere il lecito dall' illecito e la misura dall'eccesso: erano queste infatti le direttive etiche della politica di Cesare Ottaviano Augusto e del suo (velleitario) progetto di restaurazione morale della società romana che era stata corrotta dall'ambizione smisurata di personalità titaniche e dalle devianze di certe tradizioni orientali.
Una premura confessionale è anche in

Ode 1, 19, vv. 13-16

Ponete qui una zolla viva
qui verbene, o servi, e incensi
insieme con una coppa di vino di due anni:
sacrificata la vittima, verrà più benevola           

che presenta una scena di sacrificio agli dèi affinché premino l'osservanza del culto da parte del poeta e dei suoi intimi.
A una variazione della tematica della sapienza, del giusto mezzo e del sano equilibrio della vita rimanda il testo dell'

Ode I, 27, vv. 1-10

Con bicchieri creati a uso di piacere
è proprio dei Traci fare a gara: eliminate una consuetudine   
barbara e il verecondo Bacco
tenetelo lontano da risse cruente.
è distante la scimitarra Meda! L'empio
frastuono attenuate, compagni, e rimanete
con il gomito appoggiato.
Volete che anche io assuma una parte
del secco Falerno? […]

che risente di innegabili influssi anacreontei per il comune senso di disciplina richiesta nei momenti di delizia personale e collettiva e che distinguono un popolo civile come quello romano da uno invece rude e selvaggio come lo scitico: Bacco, infatti, è una divinità vereconda che non ama il clamore eccessivo e il cui insegnamento è fecondo solo se accolto con equilibrio e moderazione.
Un tema, questo, che ricorre anche nell' 

Ode I, 36, vv. 11-14

Né all'anfora pronta vi sia
un limite né riposo dei piedi a mo' dei Salii
né Damali dal molto vino
vinca Basso nel bere secondo la moda dei Traci […]

parimenti impegnata nel versante della compostezza e nel principio esistenziale del decoro del saggio e dell'educazione morale che derivi dal suo esempio umano.  
Il segreto del sapiente sta infatti in questi pochi versi dell'

                                                                   Ode I, 31, vv. 1-10

Che cosa chiede al consacrato Apollo
un poeta? Che cosa chiede
versando                                                                                  
dalla tazza del vino novello? Non i fertili
non i graditi armenti della Calabria
torrida, non l'oro o l'avorio indiano.
non i campi che il Liri, silenzioso
fiume, lambisce con corso sereno.
Pòtino con falce calena coloro cui la fortuna  
concesse la vite […]

dove si prescrive per l'uomo onesto un tenore di vita fondato sulla progettazione di ambizioni proporzionate alla capacità o alla possibilità di realizzarle, tenendosi lontano da eccessivi appetiti di grandezza. 

Al versante politico rimanda invece il motivo dell'
 
                                                             Ode I, 37, vv. 1-6 e 14-15

Ora è il momento di bere, ora con piede libero
bisogna battere la terra; ora era tempo
di ornare la suppellettile degli dèi con vivande
da Salii, compagni.
Prima non era consentito stappare il Cecubo
dalle cantine avite […]
e la mente offuscata dal Mareotico  
ricondusse a timori reali […]

in cui prende corpo una rappresentazione duplice del potere e delle funzioni del vino: una, positiva (per il quale il poeta, alla maniera di Alceo, brinda a un felicissimo evento politico e militare, come l sconfitta definitiva di Cleopatra che aveva sfidato la potenza romana e aizzato i suoi amanti contro la capitale italica) e l'altra, negativa (per la quale la vittoria ottavianea avrebbe punito la mente esaltata e proterva della regina punica devastata dai malefici effetti del vino mareotico. 
Ad una differente condizione dello spirito rimanda invece l'

Ode 4, 12, vv. 14-24   

[…] ma se il Libero pigiato in Calvi desideri
bere, ospite di giovani nobili,
mescolerai i vini con il nardo.
Un piccolo vaso di nardo caccerà fuori un orciuolo
che ora riposa nei granai di Sulpicio,
generoso nell'infondere speranze e capace
di dissipare l'amarezza delle afflizioni.
Ma se a queste gioie ambisci
vieni veloce con un vasetto:
non penso di darti un po' di colorito
gratuitamente con le mie tazze
in quanto ricco in una casa ben fornita […]

che costituisce un altro grazioso tranche de vie dell'arte di Orazio, esperto della lavorazione e delle caratteristiche dei vini, e conferma in pari tempo l'immagine di un uomo e di un poeta capace di lodare i meriti del vino e di astenersi dai suoi effetti negativi(8).

Ma questa bevanda preziosa sa essere qualcosa di più personale e più importante ancora, come recita l'

Ode III, 8, vv. 6-16

[…] Avevo offerto in dono dolci banchetti e un bianco
capro a Libero, per poco io non ferito a morte
per il colpo di una pianta.
Questo giorno festivo, ricorrendo l’anniversario,
stapperà il sughero spalmato di pece
dall'anfora posta a bere il fumo
durante il consolato di Tullo.
Prendi, Mecenate, cento ciati di un amico
scampato al pericolo e, desto, protrai
fino al giorno le lucerne: lontano sia
ogni clamore e rissa […]                                

che, oltre alla consueta suggestione anacreontea dei pochi versi di questa lirica, indica il motivo conduttore di questo inserto stichico nella devozione al culto di Bacco, che il poeta considera suo salvatore dall'incidentale caduta di un albero: scampato, infatti al pericolo della morte, ogni anno celebrerà l'anniversario della benevolenza del dio con un amico di fiducia in un'occasione amicale: il vino e il convito.
Anche nella Musa di Virgilio la tematica enologica e vitivinicola è importantissima ma diventa protagonista, o una delle protagoniste, nel poema didascalico delle

Georgiche, libro I, vv.

[…] Non pende dalle nostre piante la stessa vite                      
Che Lesbo carpisce dal tralcio di Metimna;
ci sono le viti di Taso e ci sono le bianche Mareotidi,
queste sono congeniali alle terre grasse, quelle alle più leggere
e migliori per il passito e la psizia e la sprofondante leprotta,
che  una volta incepperà le gambe e legherà la lingua;                                                      
le rossastre e le precoci con cui celebrerò versi
o retica? E non far gara con le cantine del Falerno.
Ci sono anche le viti Aminnee, vini robustissimi,
ai quali si inchina Tmolio e lo stesso re Faneo;
e l'Argite minore, con cui non gareggerebbe alcuna     
o tanto produssero o durarono altrettanti anni.
Non tacerò di te, o cara agli dèi
uva rodiese durante le mense e di te, Brumaste, dai grandi chicchi.
né quante specie né quali siano i nomi                                                         
un numero esiste né infatti importa comprenderle in un numero […]

Questi versi non brillano soltanto per la conoscenza enologica del poeta che, affrancandosi poeticamente dalla necessità didattica, sa trasformare la materia impersonale in pagina lirica ma anche per quel sentimento rurale, animante piuttosto i versi delle Bucoliche, e in cui il poeta proietta ed effonde il proprio bisogno di pace, abbandonandosi all'armonia primigenia e incorrotta dell'idillio campestre. Allora le creature vegetali diventano mute compagne della sua anima sognante e della sua natura effusiva e la vite l'interlocutrice ideale dei suoi pensieri più autentici: essa sola, infatti, o più delle altre, sa ricondurre le sofferenze del Mantovano a un ordine della Natura ben più persuasivo e ben più consentaneo alla sua anima.
Altrove, invece, il vino avvicina popoli prima ostili come i Cartaginesi di Didone e i Troiani di Enea e, nella circostanza specifica, anche con il concorso degli dèi, sa creare intese amorose, come in

Eneide, libro I, vv. 705-706 e 728-729:

[…] che ornino le mense di coppe e servano tazze
Qui la regina ne chiese una pesante di gemme e di oro
e riempì di mero una coppa […]

Ma la materia enologica, pur rivissuta con una sensibilità nuova e non allineata, animò anche i versi di un'opera davvero problematica di un grande poeta sulmonese, Ovidio, che suggeriva in Ars amandi, I, vv. 563-580 e vv. 587-602

Dunque, quando ti saranno toccati i doni di Bacco giacente
e avrai una donna su parte di un complice divano, 
supplica il padre Nittelio e i riti notturni
perché non consentano al vino di darti alla testa.
Ti è consentito dire molte cose celate in stile
e lievi blandizie scrivere con vino leggero 
perché in tavola quella si dica tua signora.
e che gli occhi guardino negli occhi che rivelino passione.  
Spesso anche tacendo un volto contiene parole.
Fa che per primo afferri le tazze sfiorate
dalle labbra, e bevi da dove beva la ragazza; 
e qualunque cibo quella abbia assunto con le dita, 
Tu cerca di sapere, finché potrai, se ti sia stata toccata la mano.
Sia anche tuo desiderio piacere al marito della ragazza: 
Vi sarà piuttosto utile uno diventato amico.
Se per buona sorte berrai, concedi a lui la sorte migliore
sia data a lui la corona posta sul tuo capo. […]  
[…] da noi ti sarà data una misura sicura del bere
Facciano bene il loro compito mente e piedi.
Ti guarderai dai contrasti provocati dal vino
e da mani troppo suscettibili a scontri feroci.
Crepò Eurizione stupidamente bevendo i vini donatigli:
Più idonei la mensa e il vino al dolce gioco.
Se hai voce, canta, se hai braccia agili, danza;
e, in qualunque modo possa piacere con la cultura, cerca di piacere.                                                  
L'ebbrezza nuoce se autentica, fa bene se finta:
fa che balbetti subdola la lingua al suono bleso,
in modo che, qualunque cosa tu faccia o dica, più protervo del giusto
si creda esserne stata causa il mero.
E parla bene della signora, bene, di quello con cui le dorma;
[…]    prega che capiti un accidente al marito con pensieri non detti […]

che la varierà in mille modi in altre sue opere, dove trattava i rimedi dell'amore e i modi di tenerlo desto: una lettura leggera, mondana e di spiriti moderni, che si completa in una casistica seduttiva assai raffinata: “Appresta il vino ai cuori e alla passione li fa più pronti, sfumano i pensieri, nel molto vino ogni pena si stempera” era uno dei tanti aforismi creati dal poeta abruzzese. Ma, come è noto, per questo suo spirito libero e forse libertino, egli incorse nella censura di Ottaviano che certo non poteva, nel laborioso clima di rifondazione della morale pubblica e privata romana, autorizzare la circolazione di opere antagoniste propugnanti l'adulterio, la dilapidazione del patrimonio e la seduzione erotica, per un cui approfondimento si suggerisce la lettura di una recentissima pubblicazione(9).

Ma la civiltà romana quale si configurava nella pur sospirata pax augustea parlò anche per bocca di Albio Tibullo, che, indagando sulle afflizioni sentimentali, scriveva in:

Corpus Tibullianum, Elegia I, 2, vv. 1-4,

Aggiungi del mero e mescola al vino dolori nuovi 
così che il sopore di chi ne è vinto occupi gli occhi di chi ne sia stato colpito
né alcuno svegli chi è stato per lungo tempo
da Bacco finché l'infelice amore riposi

ritenendo che il vino fosse capace di lenire le sofferenze profonde dell'amore, senza tuttavia aggiungere alcunché di effettivamente personale e muovendosi prudentemente, in ogni caso, all'interno della logica di governo.

Ad una riflessione similare perveniva l'altro grande esponente dell'elegia romana, Sesto Properzio, il quale in 

Elegie, III, 17

ricordava ugualmente che il vino, durante i convegni amorosi servisse a placare le pene d’amore:

Ora, Bacco, ci involiamo ai tuoi altari.
Dà a me rasserenato, o padre, vele favorevoli.
Tu puoi placare l'orgoglio di Venere
Grazie a te si congiungono, grazie a te
si separano gli amanti
Tu allontana, Bacco, dal mio animo la pena.  
Tu pure, infatti, si è certi che non sia inesperto fra gli astri.
Trasportata infatti Arianna in cielo dalle tue linci,   
questo male che custodisce nelle ossa le passioni
guariranno i funerali o i tuoi vini,
sempre infatti una notte astemia contorce gli amanti
e la speranza e il timore travolgono gli animi in un modo  o nell'altro
che se, Bacco, con i tuoi doni, attraverso le tempie ardenti 
sarà sollecitato il sonno per le mie ossa,
io stesso pianterò viti e disporrò colline in ordine
che nessuna fiera violerà se veglio io;  
purché mi spumeggino doli di rosso mosto,
e una nuova uva bagni i piedi di chi la pigi,  
per quanto tempo di vita rimanga vivrò per te e  per i tuoi corni
e della tua virtù, Bacco, sarò detto poeta,
dirò io dei parti materni per la folgore Etnea,
delle armi indiche fugate dai cori Nisei
e di Licurgo vanamente folle per una vite nuova
e i funerali di Penteo portati via in triplice schiera,
e che i corpi incurvati dei delfini, marinai Tirreni,
si gettarono nell'onda dalla nave di pampini
e per te, i fiumi odorosi al centro di Nasso
da dove porta il tuo mero la moltitudine di Nasso
con il candido collo gravato da teneri corimbi
la mitra cingerà le chiome Bassaree,
il collo elegante emanerà profumo di olivo
e muovendosi la veste, sfiorerai i piedi nudi
suoneranno i timpani sensuali della Dircea Tebe,
canteranno i Pan dai piedi di capra con flauto sonoro,
accanto, la grande dea Cibele con la testa turrita
percuoterà i cimbali rochi per i cori Idei.                                                                                    

Ma qui c’è forse di più: c'è infatti un sentimento sincero di gratitudine verso la divinità che introdusse la vite in Italia; la divinità che qui il poeta invoca a sostegno e conforto della sua infelicità amorosa perché egli non patisca più le debilitanti sofferenze della passione: in cambio egli celebrerà le lodi del dio benefattore, del suo nume e della sua appassionata liturgia. Ma, come spesso accade nella tradizione enologica e cultuale dei Romani, non manca una rappresentazione di senso contrario alla vulgata della tradizione laico-teologica romana, come in

IV, 8. vv. 29-32:

[…] Una tal Fillide è vicina a Diana dell'Aventino;
da sobria piace poco quando beve ne dice di cose,
L'altra, Teia, anche tra i boschi Tarpei
[…] splendida ma non le basta, da ebbra, uno solo.

dove non si mettono in discussione la benevolenza del dio Bacco o la predilezione per il suo nettare divino ma si pongono in rilievo gli effetti disdicevoli del suo uso smodato.
Il senso del grottesco, invece, dell'uso del vino lo si può cogliere piuttosto in

Petronio Arbitro, Satyricon, 21, 18 e 39, 2

[…] ricevuto l’ordine, dunque, ci sdraiammo e avviati a una straordinaria abbuffata, ci inondiamo anche di Falermo. Sorpresi anche da più portate, sprofondando nel sonno […]
[…] Questo vino, disse, è opportuno che lo celebriate. I pesci è bene che vi nuotino dentro. Vi domando: ritenete che io mi accontenti di quella cena che avevate visto sul vassoio degli antipasti? […]

Con una cura meticolosa ai dettagli materiali del simposio, Petronio sa rappresentare la condizione di un rozzo parvenu che, malgrado la recente ricchezza, è rimasto il bifolco, il cafone di sempre e ritiene che guadagnarsi fama e consenso con l'ostentazione del suo sovrabbondante benessere materiale. Nella scena il vino non ha più nulla di simbolico, più nulla di identitario, più nulla di teologico: è solo il miserabile strumento di persuasione a disposizione di chi non abbia altro per rendere onore alla sua persona.

Di ben altro tenore la comparazione enologica della vicenda umana nella meditazione filosofica del suo contemporaneo

Anneo Seneca, Epistulae ad Lucilium, XVII, 26   

[…] come quello che esce primo dall'anfora è il migliore, e quello che si desposita al fondo molto denso e torbido, così nella nostra vita è migliore quello che sta in superficie […]

la cui riflessione sulla dinamica evolutiva dell'uomo è davvero degna della sua fama. A suo giudizio, infatti, l'uomo va incontro a un naturale processo di corruzione man mano che si affacci sul teatro della vita, cosicché, a contatto con il male, non sappia rendersene immune, deteriorando la sua natura originariamente pura: e in questo è proprio come il vino che, giovane, si deposita sulla superficie della botte ma, appena invecchiato, si appesantisce di scorie e di impurità che lo spingono invece al fondo del recipiente. Davvero nessuna similitudine poteva essere meglio declinata.

Ma il tema del vino guadagnò anche generi minori della letteratura latina e segnatamente se ne interessò anche il celebre Fedro, che raccontava in

Favole, III, 1 Anus ad amphoram

Una vecchia vide un'anfora svuotata, / che ancora diffondeva dalla testa per largo spazio un profumo piacevole per la feccia del Falerno./ dopo che, avida, lo ebbe inspirato a larghe narici, disse: “o essenza soave, quale buona parola potrei dire che ci fosse nei tuoi confronti, se sono queste le tue residue qualità?”/ A che tenda discorso lo dirà chi mi abbia conosciuto. 
dove però il confronto con la prelibatezza del residuo vino dell'anfora è semplicemente finalizzato alla scherzosa celebrazione dell'autore.

Una scena più apparentemente distesa suggerisce la lettura di questi pochi distici di

Marziale, Epigrammaton libri, VIII, 55, vv. 12-15

Stava in piedi quello più bello nelle mense del padrone di casa
versando a profusione nero Falerno con mano bianca come marmo
e offriva coppe delibate dalle labbra rosate  
che potevano stuzzicare lo stesso Giove.

Nulla di particolare rilievo se non la magnificazione di un vino degno del palato del padre degli dèi, non disgiunta da qualche dettaglio allusivamente pruriginoso.  
A un registro più alto rimanda invece questo breve inserto del poeta

Aulo Persio Flacco, Satira II, vv. 1-3>

questo giorno, Macrino, ségnalo con pietruzza migliore
che splendido ti pone in faccia anni fugaci,
versa del vino al tuo genio, tu non chiedi con preghiera interessata […]  

che intende celebrare accoratamente e convenientemente il disinteresse della preghiera del giovane amico Macrino: a queste condizioni la bevanda di Bacco crea e corrobora le amicizie.
Un'accezione del tutto negativa traspare dalla musa di

Giovenale, Satira VI, v. 100 e vv. 302-305

[…] ma che ritegno può avere una passione eccitata dal vino? […]
[…] quella che in piena notte morde grandi ostriche
quando mescolati a puro Falerno spumano unguenti,
quando si beve da bacili da profumo, quando ormai si muove
il soffitto e una mensa si scorge con due lucerne […]

che è un impietoso atto d'accusa nei confronti di chi, nei fumi dell'alcool, smarrisce il senso del pudore ed è preda di allucinazioni inconsulte e di alterazioni sensoriali. La riprovazione morale sa creare e immaginare scene di scomposta animalità e capaci di smentire progressi e pedagogie vecchi di secoli, con grave danno, tra l'altro, all'immagine della donna che ormai non ha nulla in più da contestare e opporre alle bassezze dell'uomo contemporaneo.
Nei secoli successivi della grandiosa civiltà romana la tematica enologica, pur sempre presente nella memoria e nella sensibilità dei poeti, perse quel vigore liturgico e identitario che aveva ispirato i maestri antichi, di pari passo con il sincretismo culturale e confessionale del periodo ellenistico, che assisté alla commistione di tradizioni molteplici, e non sempre conciliabili, di mode e confessioni. E quando pure essa sostanziasse la sensibilità dei poeti, i loro versi scadevano o nel rimpianto del bel tempo dell'Impero o nella recriminazione per la substitutio gentium ora pervenute al timone dello stato già romano per effetto delle rovinose e irreversibili invasioni barbariche.

*** *** ***

A conclusione di questo articolato percorso enologico sembra opportuno riportare due apparentemente opposti ma in realtà coincidenti punti di vista di scrittori esperti del settore vitivinicolo: uno, autore di un articolo pubblicato in S. Menghini (a cura di), AA.VV., Symposion, FUP, Firenze, 2012, e cioè P. Sarpi, “Il vino non si colloca nello spazio del necessario e del quotidiano ma piuttosto in quello del superfluo e pertanto del festivo” (Vino e orizzonte mitico-rituale nel Mediterraneo antico, p. 5); l'altro, M. Manaresi (“La vite è una pianata presente in moltissime parti del mondo e il vino, con i suoi commerci, ha raggiunto ogni parte del globo. Ovunque sia arrivato, il vino ha trascorso l'essere un semplice alimento per diventare elemento culturale ricco di significati simbolici e perciò, data la sua diffusione, si è ritnuto di poterlo utilizzare come elemento utile ed efficace per analizzare culture diverse dalla nostra”, in Vino e interculturalità. Ebraismo, Cristianesimo e Islam, LONGO, Ravenna, 2011 (quarto di copertina). Ma meritano pari visibilità anche gli articoli di G.C. Cianferani, La vite, il vino, l'archeologia. Una nota introduttiva; e F. Moscato, Il simposio e di altri scrittoriaccolti nell'opera curata dal già menzionato S. Menghini.

 

 *  Le traduzioni sono state curate dell'articolista.

 

Note

(1) In realtà non è agevole determinare con esattezza l'estensione di questa plaga del Mezzogiorno italiano ma, facendo fede alle indicazioni di Dionigi di Alicarnasso in Ῥωμαικὴ Ἀρχαιολογία. I, 64-71, di Tucidide di Atene nelle Ἱστορίαι ovvero La guerra del Peloponneso, VI, 2 e di Virgilio, Aen. III- 163-167, sembra che essa si estendesse dalla Campania Sud-orientale alla Calabria e alla Basilicata dei giorni nostri e che forse inglobasse ancora altre minuscole entità territoriali limitrofe).

(2)I Greci denominavano il nostro Paese Enotria per attestarne la spiccata vocazione alla viticoltura. L'Italia era un immenso serbatoio di vino conosciuto e appezzato” G. De Marco, Non cultura, in Gazzetta del Mezzogiorno, 19 Aprile 2008. Gazzetta di Bari, p. 18); e ciò è confermato anche da un ulteriore elemento: la correlazione delle genti dell’Enotria con l'etimo greco modellato su oἶνος, cioè vino, e su oἴνωτρον, cioè vite.

(3) Un esempio pittorico di questa corrispondenza è nel Dioniso-Bacco della Villa dei Misteri di Pompei.

(4) it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_vino   

(5) Propriamente M. Vitruvio Pollione, De architectura, I.4,2). 

(6) A. Tchernia-J.-P. Brun, Le vin romain antique, GLÉNAT, Grenoble, 1999, p. 5.

(7) Della Corte, Disegno storico della letteratura latina, LOESCHER, Torino, 1957, p. 12. Normalmente il carmen conviviale veniva intonato durante un banchetto, in cui “i convitati usavano cantare al suono della tibia le imprese gloriose degli uomini illustri”, come sosteneva C. Marchesi in Storia della letteratura latina, PRINCIPATO, Milano-Messina, 1953, p. 15, confortato da una scrittura di Cicerone, Tusc. IV, 2,3: Gravissimus auctor in Originibus dixit Cato morem apud maiores hunc epularum fuisse, ut deinceps qui accurrebant canarent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes; cioè, in italiano: Nelle Origini il loro autore serissimo, Catone, diceva che questo fosse un'abitudine presso i nostri antenati affinché, uno dopo l'atro, chi vi accorresse cantasse al suono di un flauto le lodi e le virtù degli uomini illustri; o forse della creazione estemporanea di uno degli astanti)  

(8) Per meglio dire “l'istinto fisico, animalesco, passione travolgente, trasformata vanamente in illusione sentimentale dall'uomo, che crede di trovare in esso un sollievo alla propria miseria; vi trova invece nausea, .   

(9) O. Cirillo, Sedurre da dio, INSCHIBBOLETH, Roma, 2021.                             

 

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https://www.alceosalentino.it/virgilio-di-mantova.html
https://www.gamberorosso.it/notizie/notizie-vino/poesie
https://www.georgofili.info/contenuti/poesia-e-amore-di-vino/13661
https://www.google.com/search?q=virgilio+e+il+vino&source=hp&ei=YIw_Yqz1DaGU9u8PtYmQgAE&iflsig=AHkkrS4AAAAAYj-acFBuUcm47pkhL6qHmibZJKh0m6IT&oq=Virgilio
https://www.guadoalmelo.it/il-gusto-del-vino-al-tempo-degli-antichi-romani/
http://www.patrialetteratura.com/il-tempo-la-morte-e-il-vino-quinto-orazio-flacco-e-omar-khayyam/
https://www.pinterest.it/pin/847591592340713537/
https://www.seiinvalle.ch/il-futuro/95-il-vino-nell-antica-roma
https://www.vinoartepoesia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=71:aforismi-di-ogni-epoca&catid=7&Itemid=101
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it.wikitionary.org/wiki/Enotria