Nella regione territoriale estendentesi fra il Mediterraneo orientale e il Golfo Persico secondo l'asse ovest-est e fra la penisola arabica e l'area anatolico-armena lungo la direttrice sud-nord, si estendeva la vasta area della terra dei due fiumi, il Tigri e l'Eufrate, che i Greci chiamavano Mesopotamia. Si trattava di una plaga molto fertile su cui apparvero i primi insediamenti umani organizzati e abili nello sfruttamento di quel terreno fertilissimo che prometteva raccolti copiosi e, in senso lato, un'agricoltura generosa.
Per questo motivo essa fu teatro di una sovrapposizione di civiltà in un territorio grosso modo identico che vide l'affermazione di civiltà progredite sul piano scientifico, culturale e spirituale ma effimere al punto di vista dell'organizzazione politica dello stato.
Vi si avvicendarono infatti popoli che, esordendo nei primordi della civiltà, lasciarono testimonianze di sé per un tempo effettivamente limitato, nel corso del quale poterono ampliare i territori di origine ma non amministrarli secondo criteri efficienti: si pensi, infatti, che gli imperi sumerico, accadico, assiro, babilonese, e, entro certi limiti, fenicio, duravano mediamente poco più di un secolo e mezzo: poco, rispetto almeno all'esperienza millenaria dello stato multinazionale romano che resse le sorti di una compagine intercontinentale fino alla data simbolica del 1476.
Questa situazione determinava, sul piano concreto, una commistione quasi meccanicistica, casuale, incontrollata di elementi di cultura materiale e spirituale che si tradussero, per esempio, in un’arte dalle caratteristiche generiche alquanto simili, salvo poi a indagarne il retroterra spirituale e cultuale, di un'architettura prevalentemente grandiosa e appariscente e di una religione fondamentalmente orientata verso divinità astrali.
La stessa agricoltura si volse, pertanto, alla produzione dei medesimi beni, spesso anche indipendentemente dagli strumenti impiegati per il suo esercizio e dalle consuetudini della lavorazione: frumento, cereali, datteri, olivo, frutta fresca, ortaggi e, particolarmente, la vite, una pianta destinata a soddisfare esigenze alimentari ma presente anche in altri aspetti della vita individuale e di relazione. Esattamente come si diceva nel precedente articolo del 2 marzo scorso.
Distinguere e differenziare le diverse manifestazioni delle attività connesse con l'esperienza enologica dei gruppi umani “mesopotamici” è cosa tutt'altro che agevole non solo per la mancanza di testi ad essa inerenti ma maggiormente per l'esiguità delle informazioni acquisite e acquisibili.
In questa sede, pertanto, si tenterà di rappresentare una situazione sintetica delle modalità di approccio alla tematica enologica sulla base delle esigue conoscenze finora pervenute: si scoprirà, infatti, che alcuni elementi fenomenologici coincidono fra stirpi differenti e che altri invece se ne differenziano per un motivo o per un altro.
La ricerca sulla viticoltura e sulla produzione dell'uva della cosiddetta della Mezzaluna fertile, che si estendeva dalla costa siro-palestinese fino al Mare Arabico, proseguirà poi dedicando un'attenzione specifica alle realizzazioni delle civiltà sumerica ed ebraica che figurano a buon diritto fra le maggiori insistenti in questo fecondo contesto storico-geografico-culturale o sulle quali esistono documenti scritturali ben più ampi e soddisfacenti.
A parte l'uso alimentare della bevanda, del resto non unanime per quanto comune a più genti della regione, le civiltà mesopotamiche attribuirono un valore e un significato extra materiale al frutto soave della vite, tanto che le letterature dei singoli popoli fecero di essa una tematica importantissima della loro tradizione culturale.
È noto, per esempio, che, a opera dei locali Fenici, la coltivazione della vite, intensamente praticata sul territorio costiero dell'odierno Libano, pervenisse fino in Italia e prioritariamente in Sicilia, dopo che da popolo contadino, a motivo di frequenti mutilazioni del territorio da parte di genti circonvicine, dovettero trasformarsi in gente di mare.
Tuttavia, nel territorio di origine e nelle successive colonie mediterranee essi avevano costruito empori fra i più importanti dell'antichità per la produzione del vino.
A loro infatti faceva cenno anche il profeta ebreo Osea che auspicava per gli Israeliti, ormai disavvezzi al culto dell'unico Signore, di tornare all'osservanza della fede in Jahwè in modo che le stirpi di Israele “potessero fiorire come la vite” ritenendo che il loro profumo sarebbe stato “come quello del vino del Libano”(1) . Del resto, i Cartaginesi, geneticamente eredi dei Fenici, dovettero vantare una sapienza enologica molto raffinata, benché ai moderni sia giunto purtroppo il solo documento di una ricetta di Magone riguardante la lavorazione del vino passito. In realtà la fama rinomata dei vini medio-orientali era radicata in molti ambienti della Mesopotamia fin dalla più remota antichità: così si spiega il motivo della presenza nella Sala Pubblica del Palazzo di Persepoli, l'Apadana, di raffigurazioni di popoli sottomessi recanti doni al Re dei Re dei Persiani(2) , tra i quali molte giare contenenti vino. Lo storico greco Erodoto, poi, autore delle Guerre persiane, descriveva i monarchi orientali e massimamente i sovrani pontici, particolarmente appassionati di questa bevanda dolce, della quale facevano largo consumo. Ancora in ambiente persiano si conosceva un grazioso aneddoto avente come protagonista una ragazza dell'harem del re Shah Jasmid, il quale, ricevuta notizia della delicatissima bevanda dalla giovane momentaneamente trascurata dalla sua negligenza affettiva, e avendola poi assaggiata fino a innamorarsene, riabilitò la concubina e la riammise al suo cospetto in tavola. Ma poi fece di più, perché decretò anche che tutte le uve crescenti nel territorio di Persepoli fossero destinate alla vinificazione(3) . Ancora oggi nel territorio iraniano per significare il vino si dice Zeher-i-khos traducibile come veleno gradevole.
Nel mondo ittita la vite era simbolo di vitalità e fecondità ed era associata a rituali concernenti l'edificazione di grandi edifici e liturgie di purificazione di città e abitazioni dopo un funerale e dopo le libagioni di rito.
Nella tradizione enologica nazionale, infatti, il vino è molto presente nel ciclo di Kumarbi dove si alludeva a Ullikummi, intento a bere vino dolce e alla stessa dea Astarte, impegnata a dissuadere il dio Baal dal bere vino in casa di Asherah.
Per quale motivo? Per gli effetti negativi sulla mente e sulla volontà? Può darsi.
Anche alcune tavolette di Hattusa parlano di viticoltura (wijana) e del vino che poteva essere rosso (ša geštiri, ma il secondo termine è di origine sumerica), bianco (ku.babba geštiri), di qualità (dug.ga geštiri), malato (lŏi geštiri), novello (gebel) e di basso prezzo (geštiri emsa)(4)
.Qualcosa del genere avveniva, come si dirà nei prossimi articoli, anche nella terra dei faraoni, dove vigeva addirittura una vera e propria classificazione delle qualità dei vini; ma nella civiltà ittita la cura di questa pianta era motivata anche da una certa quale proiezione metafisica della cultura enologica, nel senso che lo stesso termine geštiri, oltre a confermare la radicazione remota della vite nel territorio mesopotamico, attribuiva alla pianta il valore simbolico della vita o del dono dello spirito vitale.
Nella loro tradizione, inoltre, il vino veniva bevuto amalgamato con acqua o con miele o con olio d'oliva; e in pari tempo l'attenzione per la vite e per il nettare rosso che ne derivasse, diede origine a tutto un lessico enologico, di cui è rimasta qualche testimonianza nell'espressione kaš geštiri chepotrebbe essere posta in relazione o coinvolta nella preliminare fermentazione di cereali, olio, frutta e spezie.
Infine, per la considerazione elevatissima del vino presso questa popolazione, la locale legislazione adottava severi provvedimenti nei confronti di chi arrecasse danno alla vite ma, al tempo stesso, lo indennizzava adeguatamente in caso di incendi, essendo prodotto questo bene prezioso in quantità insufficiente e dovendo essere pertanto importato dalla Cilicia o da Karkemish o da Ugarith.
Anche i Babilonesi ebbero interesse per la vite e il vino, che dovettero anche gradire, benché non si disponga di documenti che ne attestino il consumo nella quotidianità materiale della vite, ma è noto, invece, che adorassero la dea Geshin, madre della vite, e che celebrassero le gesta di Dercos Haelius, marinaio del vino che, dopo il diluvio universale, ripopolò la terra e chiamavano il prelibato succo d'uva birra della montagna (šika šade); anche qui si colgono allusioni a un ritorno ciclico della rigenerazione umana, che forse rientrava negli archetipi culturali di alcune popolazioni semitiche della Mesopotamia.
Nell'episodio stesso del diluvio si menziona poi il nome di Utnapistim, che faceva dono agli operai di una certa quantità di vino in cambio della barca costruitagli per sfuggire a quella immane calamità: questo dettaglio narrativo conferma l'alto valore della vite e del vino presso le genti amorree, per le quali valeva almeno quanto e più della materiale remunerazione materiale. Il dato, in verità, trova riscontro anche nella ratio giurisprudenziale del codice di Hammurabi, che, non meno di altre legislazioni mesopotamiche, prevedeva cruente misure punitive nei confronti di quanti danneggiassero pianta e frutto: per esempio, si infliggeva il supplizio del fuoco a quelle sacerdotesse che avessero aperto le porte del tempio contenenti le riserve di vino.
E infine, a titolo meramente dimostrativo, si tramanda meno drammaticamente anche la memoria di un'iscrizione enologica del 2340 a.C. dedicata al sovrano di Lagash, il re Unikagina, che alludeva a una casa si riserva della birra del monte già accolta in apposite giare.
(1) La Sacra Bibbia, Osea, 14,6-7.
(2) I Persiani e gli Ittiti, furono un popolo di stirpe indoeuropea insediatisi intorno al II millennio a.C. nella Terra fra i due fiumi, a differenza degli altri, come i Sumeri, gli Accadi, gli Assiri, i Babilonesi, i Fenici e gli Ebrei, che invece erano di origine semitica: naturale che fra questi due gruppi etnici e all'interno di una stessa popolazione addirittura, vigessero usi e costumi differenti.
(3)Più nei dettagli: nel testo sacro dell'Avesta, si narra di un uccello magico che, attaccato da un pericoloso serpente fu salvato dall'intervento dello Shah Jasmid, cui, in segno di riconoscenza, fece dono di grappoli e di acini d'uva. Ma raccolti questi un capace contenitore, emanarono di lì a poco tempo un odore tanto strano durante la fermentazione, che fu considerato un veleno e pertanto rinchiuso nei sotterranei del palazzo regio. Una delle concubine del monarca, lamentando la scarsa attenzione del re, meditò il suicidio. Ma, avendone assaggiato un po', provò una sensazione di benessere tanto forte da informarne proprio lui. Questi, stregato dalla pozione miracolosa, mutò parere e si riconciliò con la bella prima trascurata. Cfr. in proposito il sito:
https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_vino%E2%89%A0Mesopotamia
(4) https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_vino%E2%89%A0Mesopotamia
ma anche il sito: Il triangolo della vite: il vino nella Mesopotamia di Gilgamesh in:
https://www.thefreak.it/triangolo-fertile-della-vite-vino-nella-mesopotamia-gilgames/
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E dalla risorsa digitale
Il triangolo della vite: il vino nella Mesopotamia di Gilgamesh in https://www.thefreak.it/triangolo-fertile-della-vite-vino-nella-mesopotamia-gilgames/
https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_vino%E2%89%A0Mesopotamia
P. This -T. Lacombe, Historical origins and genetic diversity of wine grapes, in Trends in Genetics, 22, 2006, pp. 511-511, in https://doi.org/10.1016/j.tig.2006.07.008