Con la lettura di due fra i migliori componimenti pervenuti di Mimnermo si conclude la trilogia dei maggiori poetici erotici del VII-VI sec. a.C., ovvero di quell'età arcaica degli Elleni che aveva saputo donare frutti già sapidissimi alla tradizione culturale dell'Occidente.
Meglio di altri lirici contemporanei e successivi ad Archiloco e a Saffo, e forse anche dello stesso Anacreonte che già in antico veniva associato a questi, egli portò alla ribalta dell'uditorio del tempo la voce del sentimento d'amore e delle urgenze interiori dell'anima umana.
Questo suo progetto poetico, però, si ricostruisce a malapena sullo studio di quanto solo sia pervenuto di una produzione artistica ben più ampia e varia, ispirata, tuttavia, a una visione comunemente sensuale del vivere: in lui, infatti, le delizie dell'amore erotico sono il vero e unico antidoto al torpore grigio dell'esistenza e, ancor più, alle angosce corrosive della vecchiezza.
Consapevole di questa sua ormai fisiologica e irreversibile condizione, l'uomo maturo si rinchiude in sé, preoccupato della salute cagionevole e insoddisfatto per l'incapacità di fruire delle poche, residue ma ancora pruriginose attrattive della vita: escluso, dunque, dal godimento dei sensi, egli, ormai in là con gli anni, si incupisce interiormente, avverte i segni inesorabili del cedimento fisco e lo stemperarsi del carisma della seduzione. In tale condizione, pertanto, non ha senso vivere da spettatore della vita per chi da essa si senta emarginato, inviso ai giovani e irriso dalle donne che un tempo lo amavano e che egli ricercava.
Questo il concetto rappresentato nel
In siffatto atteggiamento Mimnermo è senz'altro figlio del suo tempo, erede e testimone di quella civiltà arcaica greca e in pari tempo cittadino di quell'area dell'Egeide “cui la contiguità con le culture orientali conferiva il gusto e l'abitudine di un'esistenza progredita e raffinata(1) e già celebre, in tutta l'Ellade, per la mollezza e la sofisticatezza dei suoi costumi: un periodo storico, peraltro, cui risale anche quel gusto delle contrapposizioni concettuali che, al momento soltanto anticipate ante litteram, avrebbero poi animato, in avanzata età classica, il dibattito dialettico della filosofia contemporanea e della sua crisi.Fr. 1 W
Ma quale vita, quale gioia esiste senza la bionda Afrodite?
Preferirei morire quando non mi interessassero più queste cose:
l'amore nascosto, i doni dolci come il miele e il giaciglio;
che di giovinezza sono fiori desiderabili
per gli uomini e per le donne, ma quando sopraggiunga dolorosa
la vecchiezza che rende sgradevole anche un uomo bello,
lo consumano nell'animo le apprensioni malvage
e pur vedendo i raggi del sole, non ne prova piacere
inviso ai ragazzi e sgradevole per le donne.
Così penosa rese un dio la vecchiezza.
E di fatto sembra che il poeta colofonio non riconosca altro valore, nella vita propria e altrui, che la gratificazione degli istinti più immediati e naturali.
Di certo la sua musa non è animata da un'autentica tensione interiore, non conosce le inquietudini, le sofferenze e gli spasimi dei suoi illustrissimi predecessori; essa rifugge altresì dall'esperienza dell'autoanalisi, perché nasce da un bisogno individuale e personale del poeta né guadagna le altezze di un organico pensiero filosofico: l'erotismo dei suoi versi, infatti “è privo del tormento fisico e dell'estasi di Saffo sia della cruda carnalità di Archiloco (…) ma vive dell'intenso presentimento della caducità” (2); e per di più si avverte subito che nella sua esperienza della vita e nella sua elaborazione lirica “al fiero vitalismo archilocheo subentra una malinconica contemplazione, che individua nel trascorrere inflessibile della vita la dolorosa condanna cui soggiace la natura umana”. (3)
Già in passato Carlo Gallavotti giudicava la lirica di Mimnermo, e questa in particolare, “immediata espressione di un sentimento senza contorni mitologici o storici, lirica effusione di un risorgente desiderio teso verso la gioia e il piacere della vita nel fiore degli anni che si conturba e si vela di malinconia nell'attimo stesso della soddisfazione a causa dell'ombra sempre vicina e incombente della morte” (4). Lo scrivente articolista ritiene anzi acronica e atopica la riflessione del lirico ionio, i cui contenuti si appuntano genericamente a situazioni che si avvicendino, identiche e prive di spessore gnomico, nel vissuto dell'uomo di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
Parlare poi di sistema filosofico a proposito dei versi di Mimnermo sembra del tutto improprio e alieno dalla natura e dalle ambizioni stesse del poeta: la sua impostazione esistenziale può valere come modello di vita ritagliato su misura per se stesso, per quanto consonante con quell'idea di lascivia dei sensi diffusa nel contesto egeide del tempo; né la sua riflessione si basa su valori universali positivi e assoluti: non certamente sull'eroismo né sull'amore di patria, né su un ideale di giustizia, né su una responsabile professione di fede né, più borghesemente, sul valore etico del lavoro.
Parlare invece di relativismo etico per un poeta che viva lasciandosi vivere ma che non si faccia portavoce di una dottrina avversativa sarebbe forse eccessivo: già infatti questa idea comporterebbe l'elaborazione di un coerente progetto controvaloriale basato sull'adozione di scelte utilitaristiche, contingenti e contraddittorie.
Non mancano echi di questa lirica originale in autori dell'età moderna, come per esempio, in un poeta francese dell'Ottocento, di cui, nella traduzione di Guido Davico Bonino, si propone qui la lettura:
Gerard de Nerval, Un viale del giardino del Lussemburgo, vv. 9-12
(…) Ma no … Già la luce va via;
la mia giovinezza è finita
Profumo, fanciulla, armonia
la gioia passava – è fuggita.
Qualche studioso contemporaneo osserva in questa lirica indizi di una tristezza e di uno smarrimento avvertiti da un'anima sognante e romantica ma che, a parte, forse, la analogia situazionale rappresentata dai versi non ha nulla in comune con l'ispirazione dell'artista antico: non la delicatezza pensosa di chi prenda coscienza di una nuova condizione di spirito, né la confessione discreta a se stesso dell'irreversibile corso della storia umana.
Ma anche Johann Wolfgang Goethe, poeta immenso di poco anteriore o coevo, risentì di influssi antichi, come si può comprendere dalla lettura della lirica Estate nella traduzione di Benedetto Croce e facente parte della raccolta Quattro stagioni:
– Perché son io fugace? – a Giove domanda Bellezza.
- Perché – risponde – io feci solo il fugace bello.
Odono, Amore e Fiori, Gioventù e Rugiada, quel detto;
e, piangendo, dal soglio si partono di Giove.
Viver bisogna e amare: finiscono vita e amore.
Taglia, o Parca, entrambi i fili insieme.
Nella sestina del drammaturgo moderno l'idea divinizzata di Bellezza è congiunta in associazione binaria a quella della vita al punto che non si possa concepire l'una a prescindere dall'altra: dunque chi goda della seduzione della prima assapora le delizie della seconda. La speranza del poeta, infatti, sta nell'augurio che ambedue desistano nello stesso preciso momento della vita dell'uomo. D'altra parte una riflessione sulla giovinezza, sull'amore e sul senso della vita egli accoglieva nella composizione di opere come Die Leiden des jungen Werthers, Prometheus e Faust, impregnati di acceso spirito classico-romantico, per citarne soltanto poche tra le più fortunate. Ma in Mimnermo il rapporto fra quella e questa è consecutivo, verticale, fisiologicamente e cronologicamente successivo, ché dell'uomo conosce dapprima il volto dell'edonistica pienezza e poi l'immagine della deturpante vecchiezza. Ma nei versi di nessuno dei due si va oltre la pura e semplice constatazione del dato oggettivo.
Psicologicamente affine al fr. 1 è il successivo che, infatti, sviluppa la tematica consueta dell'artista ionico declinata secondo le componenti costitutive della caducità della giovinezza, dell'angoscia della vecchiezza e del pensiero della morte ma qui affrontata con profondità maggiore, in una prospettiva forse meccanicistica, più che te-leologica.
Fr. 2 W
Noi, come foglie genera la stagione fiorita
di primavera, quando d'un tratto son più caldi i raggi del sole,
simili a quelle per breve tempo, del fiore di giovinezza
godiamo per concessione degli dèi, senza conoscere né il male
né il bene, ma incombono le Parche nere,
una recando il termine della vecchiezza molesta,
l'altra quello della morte; dura poco il frutto
di giovinezza quanto sulla terra si irradia il sole;
ma quando trascorre questo termine di stagione,
allora è preferibile morire all'essere vivo;
molte sventure infatti si generano nell'animo, una volta rovinano
il patrimonio e ne sorgono azioni dolorose di povertà:
uno poi sente il bisogno di figli e di loro soprattutto
avendo desiderio, giunge nell'Ade sotto terra;
un altro patisce un morbo lesivo dell'animo: non c'è nessun
uomo, cui Zeus non riservi molti mali.
In esso il discorso diventa più specifico e circostanziato perché sembrano delinearsi tre elementi di riflessione rispetto all'elegia precedente: 1) l'inconsapevole esperienza umana del momento magico della giovinezza e rappresentato dall'espressione senza conoscere il bene e il male del verso 3 (e su cui anche Folco Martinazzoli poneva l'accento, 2) il tema già solito della morte del verso 7 e infine 3) quello dell'apedia ovvero dalla mancanza di figliolanza del verso 13.
Si avverte in essi una climax etico-fisiologica che, fra gli estremi dell'esuberanza giovanile e l'assenza della figliolanza, pone il termine medio nella morte che, in tal caso, funge proprio da ponte tra le due opposte condizioni, pur concentrando il valore pregnante sul motivo autobiografico dell'edonismo libero e irresponsabile. Ma tutto scaturisce dalla posizione di partenza: cioè dalla propugnazione del godimento anarchico irregolare, eccessivo della giovinezza come di un momento irreversibile della vita; conseguenza di ciò è il rammarico tardivo per l'imminenza di una morte non confortata dalla presenza di chi lo ami né dalla continuità di sé nelle generazioni successive di uomini e donne. Ma anche questo punto di vista non è solo convinzione individuale del poeta bensì assunto radicato nella sensibilità ellenica del VII-VI sec. a.C.(7)Una nota diffusa di pessimismo permea il componimento e tradisce un'insoddisfazione palbabile nell'anima profonda del lirico colofonio che parrebbe anticipare sviluppi futuri del pensiero greco, ma determina altresì posizioni ermeneutiche contrastanti nell'avvicendarsi dei secoli: più di uno studioso ha infatti avvicinato la materia di questa elegia al pensiero filosofico di Giacomo Leopardi espresso nell'Ultimo canto di Saffo, ne Il tramonto della luna e ne Le ricordanze e, più a ritroso nel tempo, a Virgilio delle Georgiche e a Omero dell'Iliade, di cui si riportano qui i passi interessati dal confronto, disponendoli, però, in ordine cronologico:
Omero, Iliade, VI, vv. 146-149:
Quali le foglie, tale la stirpe degli umani
il vento brumale sparge a terra (...)
altre le ricrea la germogliante selva e giunge la stagione
della primavera, così l'uomo nasce e così muore (…)
Ma l'esametro epico, pur delineando una visione per così dire fisiologica dell'esistenza, frappone un'evidente distanza artistica dall'enunciato filosofico, dal momento che, in effetti, “in Omero la vicenda delle vite umane è vista con distacco e oggettività ed è quasi ingentilita dal bel paragone (...): il cupo pessimismo della visione di nascita e morte è solo in Mimnermo”.(8)
Tuttavia pensare anche a un influsso su Sofocle non sembra fuori luogo, poiché alcuni versi recitati dal coro di una sua tragedia alludono a una considerazione similare, come si evince dalla elegante traduzione di Eva Cantarella:Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-1238:
Non esser nato è cosa
che ogni condizione supera
ma poi,
una volta apparsi,
il tornare al più presto colà donde si giunse
è il secondo bene.
E quando giovinezza non sia più accanto
con sue lievi follie
qual mai affanno va lungi da essa,
qual mai pena ne è fuori?
Invidia, rivolte, contese, battaglie
e stragi: poi, spregiata sopraggiunge
estrema, impotente, deserta
vecchiezza odiosa, ove dei mal
itutti i mali coabitano
La riflessione sofoclea sull'avvicendamento delle sorti umane viene però condotta con saggezza filosofica e rappresentata come una condizione fisiologica dell'individuo e della collettività di cui fa parte, rimanendo aliena dunque dai risentimenti e dalle recriminazioni mimnermie e saldamente organica al destino ultimo della stirpe antropica. E anche Euripide fu d'altro canto suggestionato dal pensiero di Mimnermo o da alcuni suoi aspetti: basti leggere, nella traduzione artistica di Ettore Romagnoli:
Euripide, Heracles, vv. 637-655
Sempre diletta m'è giovinezza, ma di vecchiaia il carico
sul capo, grave più delle rupi
d'Etna mi pesa, su le mie palpebre
tende i suoi veli cupi.
No, non desidero di tutta l'Asia
l'impero avere, non la ricchezza
né d'oro piena la casa, in cambio
di giovinezza,
che fra gli agi è bellissima
fra gli stenti. Aborro la vecchiaia,
la funesta, la lugubre.
Per sempre, deh, scompaia
dalle case degli uomini,
dalle cittadi. Immersa
sia fra i gorghi del mare oppur dell'ètere
fra i soffi al vol dispersa (...)
Ben più solenne e profondo è lo spessore meditativo di questo breve inserto tragico, dove la vecchiezza viene rappresentata come forza corrosiva del corpo e dello spirito, degenerazione di sensi e di pensiero, vera peste della vita umana, flagello predestinato e inesorabile che avvilisce la condizione dell'individuo con una sua interna energia distruttrice, rispetto alla quale non v'è contropartita migliore della giovinezza. Ma qui l'allusione a quest'ultima non è posta affatto in relazione con la voluttà con l’impostazione edonistica di Mimnermo: essa, anzi, ne prescinde e viene esaltata – e rimpianta al tempo stesso – in quanto tale, poiché la saggezza non può suggerire altro che la necessità di avvedersene.
Il pensiero della brevità della giovinezza è anche sulla bocca di Molpino, che agisce nel Mimiambo I di Eroda, qui rappresentato nell'interpretazione del precedente traduttore e filologo italiano:
quando il sessantesimo anno è già svoltato,
Grillo, Grillo mio, muori e diventa cenere,
poiché cieca, oltre quel punto è della vita la svolta:
ormai il raggio dell'esistenza si è spento (…)
Qui la riflessione di Molpino, chiara, semplice, elementare ma efficace rende bene l'idea della mentalità sua ma ancora vigente ai giorni suoi sin dai tempi memorabili dell'età arcaica, che considerava il compimento del sessantesimo anno di età prolusivo all'ingresso nella vecchiezza: il giovane Grillo, pertanto. innamorato della virtuosa e bella Gillide, felice sposa di un uomo al momento in viaggio per l'Egitto, dovrebbe darsi da fare per carpire il cuore dell'amata impossibile prima che passi il momento fugace della giovinezza: al di là del buon senso comune, però, questo spaccato di vita quotidiana non offre di più ed è forse il segno di un'umanità abituata a vivere con ri-ferimenti etici propri di una morale provvisoria e opportunistica.
Ma come lasciare sotto silenzio, prima di pervenire ai versi di un altro grandissimo poeta classico romano, la lettura di
Catullo, Carme 5, 4-6?
Soles occidere et redire possunt.
Nobis cum semel occidit brevis lux.
nox est perpetua una est dormienda (…)I giorni possono tramontare e ritornare.
A noi, tramontata la breve giovinezza,
tocca dormire un'unica notte in eterno (...)
Il senso di questi versi è tutto nell'antitesi con la premessa del componimento che esordisce con l'invito al godimento della vita, come be suggerisce l'incipit del vivamus: è la rivincita della contingenza del presente sull'aleatorietà del futuro ed è proprio questo l'elemento comune ai due lirici, ugualmente distanti da una riflessione esistenziale autentica ma che, nell'autore veronese, sembra assumere piuttosto il tono di una persuasione accorata all'amore che debba affrontare i pericoli di una sotterranea e mal celata diffidenza sentimentale: Lesbia, com'è noto, non brillava affatto… di virtù morali.
Ed ecco ora finalmente, il contributo prima segnalato di
C'è in realtà una consonanza maggiore con la sensibilità dell'epos virgiliano che sembra muoversi con un simile tono lirico-espositivo e con una riflessione parimenti accorata sulla condizione umana ma non sfugga tuttavia il particolare ideologico ispirante la composizione del poema: che cioè l'autore mantovano intendesse muoversi in sintonia con lo spirito e con la logica della cultura augustea che, sollecitando un certo attivismo partecipativo da parte dell'intellettuale organico, proponeva un'immagine meno sofferta della morte e la presentava come il punto di arrivo di un'esistenza fattiva, produttiva, sollecita degli interessi dello stato Romano e dunque meno edonistica ed eticamente impegnata.Virgilio, Le Georgiche, I, III, vv. 76-78:
quaeque dies miseris mortalibus aevi
prima fugit: subeunt morbi tristisque senectus
et labor, et durae rapit inclementia mortis (...)ottimo fugge per i mortali ciascun tempo
primo della vita: subentrano poi morbi e vecchiezza triste
e fatica, e trascina via l'inclemenza della dura morte (…)
In età moderna ̶ lo si anticipava poco prima ̶ non mancarono poeti che si ispirassero al precedente colofonio; e infatti:
G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 65-68:
…Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo e la vecchiezza è l'ombra gelida della morte (...)G. Leopardi, Il tramonto della luna, vv. 62-65:
ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora,
d'altra luce giammai, né d'altra aurora (...)G. Leopardi, Le ricordanze, vv. 132-135:
… E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il buon tempo,
se giovinezza, ahi giovinezza è spenta? (...)
A onor del vero, però, il confronto con il grande poeta recanatese è più articolato e variamente declinato fra opinioni alquanto frastagliate.
Non manca infatti chi supponga coincidenze puntuali fra il pensiero del lirico antico e la riflessione dell'erede italiano, ritenendo che questi somigli a Mimnermo “per la nudità della forma, per l'immenso ardore della giovinezza, per la visione pessimistica del mondo. Come Mimnermo, Leopardi sia pure con maggiore intimità e profondità, ora alterna alla gioia il dolore ora erra tra l'ebbrezza delle illusioni e l'amarezza della realtà”. (9)Altri ne individuano analogie relative e divergenze significative esprimendosi in questi termini precisi: “il poeta antico e il moderno qui si sentono all'unisono; ma nel Leopardi c'era una sensibilità e una vastità di visione che manca a Mimnermo, perché in questi la giovinezza non è verginità di speranze, sogno, abbandono all'illusione, canto, quale ci appare nel rimpianto del poeta di Recanati, per il quale il mondo non ha che due cose belle: Amore e Morte; in Mimnermo la cerchia di ispirazione era as-sai più ristretta, per lui giovinezza significa piacere, possibilità di godimento, di in-contri segreti”. (10)
Altri ancora, invece, ne sottlineano principalmente le distanze, convinti che “il confronto (…) risulta sfocato, soprattutto per la diversità dei concetti cardini nell'uno e nell'altro poeta. In Leopardi c'è vigore infinitamente più robusto, Mimnermo pare rispecchi una stanchezza invadente e profonda, che non si scrolla, ed alla fine ci piega, sia pure con dolcezza”(11).
Ma questo poeta antico, incline all'edonismo eslege non meno che alla malinconica nostalgia, ha guadagnato il consenso di non pochi altri poeti dell'era moderna e ancora più numerosi, prevedibilmente, in Germania, dove, per citare un nome fra molti, questi suoi sentimenti contrastanti accolsero il favore di Friederich Hölderlin vissuto tra la fine del Settecento e i primi dell'Ottocento e autore di un tetrastico di tematica similare qui riprodotto nelle sue due successive redazioni:
Friedrich Hölderlin, Taedium vitae:
Das Angenehme der Welt hab'ich genossen.
Die Jugendstunden sind, wie lag wie lang, verflossen.
April und Mai und Julius sind ferne.
Ich bin nicht mehr, ich habe nicht mehr gerne.Ho acquistato l'abbraccio del mondo.
Il tempo della giovinezza, quanto a lungo, quanto a lungo è trascorso.
Aprile e Maggio e Giugno sono lontani.
Io non sono più niente, non ho proprio più niente.E nella seconda redazione:
Das Angenehme der Welt hab'ich genossen.
Die Jugend Freuden sind, wie lag wie lang verflossen
April und Mai und Julius sind ferne.
Ich bin nicht mehr, ichleabe nicht mehr gerne.Ho acquistato l'abbraccio del mondo.
Le gioie della giovinezza quanto a lungo, quanto a lungo sono trascorse.
Aprile e Maggio e Giugno sono lontani.
Io non sono più niente, io non vivo più volentieri.
Esiste effettivamente un'analogia immediata fra i testi greco e tedesco, un filo rosso sottile ma capace di collegare sensibilità cronologicamente distanti come, del resto, nei casi precedentemente illustrati; ma si possono cogliere forse anche indizi non irrilevanti di autonomizzazione dal modello antico: per esempio il verso dell'apertura n.1 e quello di chiusura n. 4: essi, infatti, fanno riferimento rispettivo a una situazione di disponibilità verso il mondo esterno da parte del lirico germanico che, invece è assente dall'orgoglioso, cinico e sfrontato isolazionismo dell' exemplum antico; e inoltre si allude a una profonda insoddisfazione di sé che in questo è per così dire mediatamente adombrata ma che nell'epigono contemporaneo assume il tono, sin troppo e-splicito, di una forse nichilistica visione della vita.
Un riverbero di poco successivo figura in uno dei tanti splendidi componimenti di un grande poeta “maledetto” transalpino, di cui, però, si adducono, in quanto mag-giormente significativi, i solo pochi versi iniziali:
Charles Baudelaire, Semper eadem
d'où vous vient, disiez-vous, cette tristesse étrange
montant, comme la mer sur le roc noir et nu?
– Quand notre cœur a fait une fois sa vendange
vivre est un mal…
Donde viene – dicevate – questa tristezza strana
che sale come il mare sulla roccia nera e nuda?
– Quando il nostro cuore ha fatto vendemmia una volta,
vivere è un male...
Proprio nei due ultimi versi dei quattordici che costituiscono il sonetto francese e collegabili allo spirito mimnermio si accenna al motivo comune del desiderio della morte preferibile al tedio di una vita incolore che segua alla fine della giovinezza. Ma la differenza sta soprattutto nel tono della rappresentazione del concetto che di certo ha una notazione emotiva e malinconica maggiore nel nostalgico paradigma ellenico, mentre è essenziale, asciutta e definitiva nell'ispirazione del poeta moderno, dove, però opera da preludio lirico, piuttosto che da momento conclusivo dell'idea di base.
Il lettore comprende bene che, dopo tanto discutere e ricercare, la tematica animante la produzione del poeta di Colofone, pur poco sviluppata nella società ellenica delle origini, guadagnasse consensi sempre maggiori nel volgere dei decenni, dei secoli e dei millenni, sensibilizzando il pensiero di spiriti sempre meno legati all'oggettività del sentimento eroico e più inclini, invece, all'ascolto delle voci della proprio interiorità, ponendo il vissuto materiale ed esistenziale al centro della propria ispirazione artistica.
Ciò era già avvenuto con Archiloco e poi con Saffo ma ora anche in Mimnermo, sia pure con una meno profonda professione di valori; e lo stesso accadrà anche ad altri poeti di non meno forte tempra umana e culturale come Alceo, Ibico e Anacreonte, per non parlare degli autori della grande trilogia tragica che la svilupparono in vario modo nella loro drammaturgia maggiore e, ancora, delle suggestioni da loro evocate sulla sensibilità di moderni poeti e scrittori stranieri.
* Le traduzioni da tutte le lingue originali e qui riprodotte sono a cura dello scrivente articolista, salvo diversa altra segnalazione, che ha optato per una versione più aderente possibile alla lettera dei versi selezionati.
(1) D. Del Corno, Letteratura greca, PRINCIPATO, Milano, 1995, p. 93. .
(2) M. Cazzulo (a cura di), Musiké, SIMONE, Napoli, 2009, p. 114.
(3) D. Del Corno, op. cit., ibid.).
(4) Così in Lira ellenica, Antologia di poeti ellenici, D'ANNA, Messina, 1948, p. 66..
(5) G. Perrotta, Disegno storico della letteratura greca, PRINCIPATO, Milano, 1960, p. 54.
(6) Così in La letteratura greca, LATTES, Torino, 1987, p. 70.
(7) E infatti “presso i Greci comuni furono le difese di posizioni contrastanti. In età sofistica venne anzi di moda la stessa questione di difendere il pro e il contra. Se vi fu chi disse che per l'uomo la miglior cosa era non essere nato e, se nato,varcare al più presto la soglia dell'Ade, vi fu anche, come Anacreonte, chi trovava che la vita è una dolce cosa, anche nell'estrema vecchiezza” (C. Del Grande [a cura di], Antologia della lirica greca, LOFFREDO, Napoli, 1959, p. 210).
(8) L.E. Rossi, Letteratura greca, LE MONNIER, Firenze, 1995, p. 117.
(9) G. Perrotta-B. Gentili, Polinnia. Antologia della lirica greca, D'ANNA, Messina, 1948, p. 90.
(10) F. Pedrina, a cura di Musa greca, TREVISINI, Milano, 1962, p. 258.
(11) C. Del Grande, Storia della letteratura greca, LOFFREDO, Napoli, 1962, p. 76, 14ª ed. e rist.
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