1° settembre 2020

C’era una volta l’Acqua della Frecaglia

di Francesco Russo

"Ναυσικάα, τί νύ σ' ὧδε μεθήμονα γείνατο μήτηρ;
εἵματα μέν τοι κεῖται ἀκηδέα σιγαλόεντα,
σοὶ δὲ γάμος σχεδόν ἐστιν, ἵνα χρὴ καλὰ μὲν αὐτὴν
ἕννυσθαι, τὰ δὲ τοῖσι παρασχεῖν, οἵ κέ σ' ἄγωνται·
ἐκ γάρ τοι τούτων φάτις ἀνθρώπους ἀναβαίνει
ἐσθλή, χαίρουσιν δὲ πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ.
ἀλλ' ἴομεν πλυνέουσαι ἅμ' ἠόϊ φαινομένηφι·
καί τοι ἐγὼ συνέριθος ἅμ' ἕψομαι, ὄφρα τάχιστα
ἐντύνεαι, ἐπεὶ οὔ τοι ἔτι δὴν παρθένος ἔσσεαι·
ἤδη γάρ σε μνῶνται ἀριστῆες κατὰ δῆμον
πάντων Φαιήκων, ὅθι τοι γένος ἐστὶ καὶ αὐτῇ.
ἀλλ' ἄγ' ἐπότρυνον πατέρα κλυτὸν ἠῶθι πρὸ
ἡμιόνους καὶ ἄμαξαν ἐφοπλίσαι, ἥ κεν ἄγῃσι
ζῶστρά τε καὶ πέπλους καὶ ῥήγεα σιγαλόεντα.
καὶ δὲ σοὶ ὧδ' αὐτῇ πολὺ κάλλιον ἠὲ πόδεσσιν
ἔρχεσθαι· πολλὸν γὰρ ἄπο πλυνοί εἰσι πόληος."

       
“Nausicaa, ma perché ti fece così pigra tua madre?
Giacciono abbandonate le vesti splendenti
e per te son vicine le nozze, in cui devi indossarne belle
tu stessa e offrirne a coloro che ti portano via.
Proprio così si diffonde la gloria e la fama
tra gli uomini: ne gioiscono il padre e la madre augusta.
Ma andiamo a lavarle appena sorge l’aurora:
verrò anch’io come aiuto, perché tu sia pronta
al più presto. Non sarai una vergine ancora per molto.
Da tempo ti chiedono in sposa i migliori, in questo paese,
tra tutti i Feaci, tra i quali hai tu pure la stirpe.
Ma via, persuadi il tuo nobile padre alla prima aurora
ad armarti le mule e il carro, con cui trasportare
le vesti e i pepli e le splendenti coperte.
Anche per te è molto meglio andarci così,
che a piedi: distano molto dalla città i lavatoi.”

(Odissea VI - Traduzione G.A Privitera)

C’era una volta, sulle rive del Mediterraneo, un luogo come l’isola dei Feaci dove la spiaggia terminava ai piedi di ulivi millenari e dove acque sorgenti limpide e fresche scorrevano donando linfa vitale ad alberi da frutta che esprimevano tutta la gioia del luogo offrendo ai naviganti ed ai passanti, che lì andavano a dissetarsi, i loro dolcissimi frutti. Gli orti erano rigogliosi e gli ulivi abbassavano i rami onusti di drupe mature. Sorgeva là, sulla spiaggia, un bellissimo palazzo e in quel luogo il sole che arrossava il mare con i colori del tramonto dava il benvenuto alla notte che segnava il tempo in cui le ninfe del mare si univano alle ninfe delle acque sorgenti per danzare con satiri ebbri fino a quando la luna piena non fosse scolorita, fino a sparire, per effetto dei nuovi raggi del sole.

La spiaggia era ampia tanto quanto serviva per evitare che il mare superasse la soglia del palazzo ed invadesse il letto dove gli ulivi avevano disteso le loro radici e , quasi a sentinella contro la furia del mare, sopra uno scoglio emergente dalla spiaggia, si ergeva a difesa del Palazzo una casa.

La buona stagione, in quel luogo, prendeva inizio già in primavera con l’arrivo delle quaglie che stanche e smagrite atterravano dopo un lunghissimo volo, e dopo aver percorso a piedi il lungo tratto dalla riva alla sempreverde macchia mediterranea, ornata di tamerici, si adagiavano tranquille tra l’erba fresca per il meritato riposo e ristoro. La meta dei volatili era la spiaggia, che s’indovinava sotto uno strano riverbero del sole diverso da quello sul mare. Erano le pietre bianche portate lì dal mare e sorte quasi miracolosamente da un fondale ricco di posidonie e di grossi scogli. Un miracolo del mare ed un dono per le genti di quel posto.

Le pietre della spiaggia, che gli abitanti del posto chiamavano “agliaredde”, oltre ad offrire uno spettacolo straordinario per la lucentezza abbagliante, erano come sentinelle  a guardia degli ulivi e del palazzo, perché fermavano la violenza delle onde che si frantumavano percorrendo la lunga distesa da esse occupata.

La spiaggia vista dall’alto assumeva, per colore e per forma, l’aspetto , quasi, di una mezza luna, chiusa com’era tra gli scogli che la chiudevano a levante ed a ponente.

Sorprendentemente la spiaggia era in lievissimo declivio e le pietre si estendevano per fasce di dimensioni omogenee, mentre sulla riva assumevano la grandezza di ciottoli, grossi quanto un uovo di piccione, via via diventavano più grandi e al centro della spiaggia avevano già assunto l’aspetto e la forma di piccole pagnotte di pane pronte per essere infornate. Il lavoro che da secoli aveva svolto il mare, le aveva rese rotonde, senza spigoli e pesanti al punto giusto. Anche quelle pietre, ad un popolo, figlio della Civiltà Contadina, erano necessarie a soddisfare esigenze e necessità, cicliche e spesso anche giornaliere.

In primavera, quindi, quel posto si popolava; il bel tempo rendeva possibile l’approdo a marinai e pescatori, che anche di notte con il chiaro di luna potevano raggiungere le sorgenti  a terra per fare rifornimento di acqua freschissima e purissima, in quel luogo che antiche carte geografiche denominavano “Acqua della Frecaglia”, indicato con un convenzionale ideogramma che faceva intendere come ivi vi fosse ricchezza di sorgenti d’acqua.

Prima che fosse costruito il Palazzo ai confini della spiaggia, il Mediterraneo era attraversato da veloci imbarcazioni barbaresche, tanto che sull’altura che chiudeva la spiaggia a levante si ergeva una torre d’avvistamento e che faceva il paio con quella posta alla distanza di un miglio sopra un’altura a ponente e  quei luoghi, quindi, erano frequentati raramente soltanto di giorno dagli abitanti del Paese che sorgeva a qualche miglio in alto su una collina dominante un gran pezzo d’orizzonte e ben difesa da due  forre scavate da due fiumi.

Con il ridimensionamento del potere ottomano scaturito dalle sconfitte subita dai turchi alle porte di Vienna nel 1683 ed in quelle successive nel 1697 ad opera di Eugenio di Savoia, cessarono le scorrerie barbaresche e le coste del Mediterraneo, divenute sicure,  videro brulicare una nuova vita.

Non più, quindi, in quel luogo e su quella spiaggia ninfe e satiri, quaglie e marinai assetati, ma uomini e donne: gli uomini a caccia di quaglie e le donne…

 

Civiltà Mediterranea

Il Bucato

E qui risuona, ancora, la voce di Athena che spinge Nausicaa a raggiungere i lontani lavatoi, così come ci raccontano i versi omerici.

“Nausicaa, ma perché ti fece così pigra tua madre?
Giacciono abbandonate le vesti splendenti
e per te son vicine le nozze, in cui devi indossarne belle
tu stessa e offrirne a coloro che ti portano via.
…….
alla prima aurora
ad armarti le mule e il carro, con cui trasportare
le vesti e i pepli e le splendenti coperte.
Anche per te è molto meglio andarci così,
che a piedi: distano molto dalla città i lavatoi.”
  

Il rito si tramandava da tempo immemorabile, il risveglio della natura generato dai caldi raggi del sole, propiziava il momento di tener fede alle promesse d’amore che giovani e giovanette del posto si erano scambiate, desiderando convolare a nozze con la speranza di godere per l’arrivo di numerosa prole.

I figli numerosi costituivano il fondamento del benessere in una società contadina e le famiglie numerose avevano bisogno per nascere, crescere, lavorare e progredire, di una certa ricchezza di base che assicurasse la tranquillità di tutti nella gestione dei bisogni giornalieri.

E il corredo entrava a far parte in maniera preponderante nella dote che la promessa sposa portava nella nuova famiglia ed era tanto importante che soltanto quando “il corredo” fosse stato completo nella quantità decisa in precedenza, ma sempre correlata alla disponibilità economica della famiglia della promessa sposa, si sarebbe potuta stabilire la data delle nozze.

Fin dalla nascita di una figlia femmina, in una famiglia si iniziava a pensare al corredo. L’esempio visivo giornaliero del lavoro delle formiche che accumulavano ricchezza per i loro bisogni, si mutuava nelle attività delle donne che mettendo da parte quanto potevano, acquistavano, nel corso degli anni, metri e metri di tele di lino di fiandra e stoffe , con le quali avrebbero confezionato la biancheria che sarebbe servita, per tutta la vita, alla famiglia che, la bimba che sarebbe diventata donna, avrebbe creata con lo sposo prescelto.

Ed allora, nelle lunghe sere d’inverno, al calore del fuoco del camino o del braciere, tutte le donne di casa erano “chiamate alle armi” cosicché tutte potessero dar dimostrazione della loro bravura e capacità nell’arte del ricamo, appresa per gli insegnamenti ricevuti fin da piccole.

Era  in quelle lunghe sere che nascevano, lenzuoli, federe per cuscini, tovaglie , tutte ornate da preziosi ricami; le donne più giovani e meno esperte “di ago” erano destinate a produrre il punto a croce o il punto a giorno, le più esperte si davan da fare con  il punto ad erba per i disegni più disparati, mentre alle espertissime era riservato il compito di esibirsi con il filè, con gli sfilati destinati ad ornare copriletti, lenzuoli e tovaglie da tavola che, forse non sarebbero stati mai usati per l’uso a cui erano destinati, ma avrebbero fatto bella mostra esposti ai balconi in onore del Santo Patrono del paese quando era portato in processione o nell’occasione della festa del Corpus Domini o della festa dell’Assunta il 15 agosto. Insieme con queste preziosità si confezionava anche la biancheria di uso giornaliero, che doveva essere abbondante e la regola era che i capi dovessero essere a sei o multipli di sei, mentre quindi i capi preziosi si contavano sulla punta delle dita e si usavano, pochissime volte nella vita, per le lenzuola, in occasione dell’allestimento del talamo nuziale, nel letto della puerpera che doveva ricevere la visita di coloro che andavano ad ammirare il neonato o la neonata e alla fine della vita, quando le lenzuola di lino diventavano  l’ultimo giaciglio.

Ora il corredo è pronto, le tovaglie, i lenzuoli, le coperte ammucchiate sommariamente in casse e ceste devono diventare splendenti, il bianco deve mostrare tutto il suo candore lucente ed allora è necessario lavare tutto, fare il bucato e lì sul mare dove c’è il “palazzo” deve consumarsi il rito.

I preparativi fervono ed è già l’alba, il paese dorme quando un corteo di giovani donne, con la sposa in testa parte per i lavatoi. Il cammino è lungo e la giornata sarà una giornata di duro, lungo ma festoso lavoro e, meno male che è giugno perché il sole cala tardi e Il sole sarà il principale artefice della brillantezza del bianco.

Sono arrivate, il sole ancora non è alto, il mare è calmissimo e le donne si mettono al lavoro dividendosi i compiti. 

Il corredo che aveva soltanto subito il contatto di aghi e fili per i ricami che lo impreziosivano, non aveva bisogno di un lavaggio invasivo, ma aveva piuttosto bisogno di una candeggiata e dopo essere stato insaponato leggermente e risciacquato nell’acqua corrente si preparava la colata, non senza che le “lavandaie”, con allegria, tra ammiccamenti vari, ammirassero i capi con voci e segni di ammirazione per la preziosità del corredo.

La Colata

Insieme con le casse e le ceste del corredo “sul luogo del delitto” era giunta una notevole quantità di cenere , raccolta e conservata nei mesi precedenti, frutto di camini e di bracieri, questa cenere depurata di tutte le scorie avrebbe imbiancato il corredo.

Un fuoco era stato acceso quando le donne erano arrivate sulla spiaggia e su vari tripodi di ferro, caldaie, dove era stata versata acqua e poi cenere, erano state messe sulla fiamma perché l’acqua bollisse.

La cenere era la candeggina degli “antichi”.

I capi del corredo, lavati e sciorinati a dovere, venivano piegati accuratamente e mentre una parte delle donne provvedeva a questo lavoro, altre poggiavano all’interno di ceste i capi piegati e quando queste erano quasi colme, a ricoprire le ceste ed il loro contenuto interamente era posto un panno, il “cinerale” di tessuto molto spesso e di trama strettissima che debordava di molto dagli orli delle ceste.

L’acqua con la cenere bolliva da tempo e quando si riteneva che il tutto fosse pronto e avesse bollito al dovere, si versava nelle ceste e sul corredo, protetto dal “cinerale”  l’acqua e la cenere. La cenere aveva ceduto all’acqua nel tempo della bollitura e continuava a cedere sostanze sbiancanti, quasi per una magica alchimia e mentre la cenere divenuta poltiglia grigiastra si fermava sul “cinerale” l’acqua ricca delle sostanze rubate alla cenere imbianca il bucato colando attraverso i capi sistemati nella cesta.

Quando “ la colata” era terminata si sollevava il “cinerale”  e si dispiegavano i capi del corredo.

I lenzuoli, le tovaglie, le coperte e tutto quello che era stato lavato ora doveva asciugare. E per questo, quale posto migliore della spiaggia? Lì dove le pietre erano più grandi, più pulite e più bianche le donne si dirigevano per compiere l’ultima parte del rito. Le pietre biancheggiavano al sole di mezzogiorno e a guardarle controluce si poteva scorgere il riverbero dell’aria calda che si staccava da esse.

I capi del corredo venivano distesi e tirati con forza, perché non facessero alcuna piega, e venivano poggiati sulle pietre e fermati da pietre, le più grandi, posate lungo i margini.

Non occorreva molto tempo perché tutto si asciugasse e nel pomeriggio inoltrato “i panni” sarebbero stati come se tante stiratrici con ferri caldissimi e giganteschi li avessero stirati.

Era il momento di ripiegarli e riporli nelle casse e nelle ceste che all’andata li avevano condotti fino all’Acqua della Frecaglia ed alle pietre della spiaggia.

Il corteo con la sposa in testa si ricomponeva e riprendeva la strada del ritorno e in paese tutti aspettavano per guardare, quello che all’alba non avevano potuto guardare e poiché buona parte del Paese era esposto ad est, da dove proveniva il corteo, al comparire delle donne tutti aguzzavano la vista e tutti contavano quante fossero le portatrici con le ceste e le casse sulla testa, per valutare la ricchezza del corredo se cioè fosse a sei, a dodici o a ventiquattro… Se ne sarebbe parlato fino al matrimonio.