A causa della crisi del coronavirus, che ci costringe tutti a casa, ho pensato di riordinare le mie librerie. Tra le vecchie carte ho trovato un mio breve manoscritto di tanti anni fa, forse più di mezzo secolo, e perciò dimenticato.
Racconta in terza persona di una mia esperienza ricorrente di quando ero bambino e vivevo a Spoleto, ma durante le vacanze estive andavo a Napoli a casa dei nonni. Questo periodo della mia vita durò sette anni, dal 1951 al 1958.
Alla fine dell’estate tornavo a scuola a Spoleto. Partivo in treno con i miei genitori nel pomeriggio. A Roma si doveva cambiare treno quando era già sera.
Questo scritto ricorda quello che io, da bambino prima, ragazzino poi, provavo nella sosta romana di quel viaggio un po’ triste.
Roma di sera prima di prendere il treno: era un ricordo indelebile, ricorrente, come un sogno.
Paolino ed i genitori venivano da Napoli ed andavano a Spoleto. A Roma si cambiava; c’era tempo per una passeggiata nella città piena di gente, di monumenti, di chiese, soprattutto di fontane. Per un lungo periodo, proprio a causa di queste passeggiate, Paolino ebbe come la sensazione inespressa che Roma fosse una città notturna, come uno spettacolo che si tiene a ore fisse e naturalmente di sera. Uno spettacolo di luci fantasmagoriche, di zampilli di fontane, soprattutto di fontane.
Soprattutto lo colpivano la fontana dei Fiumi in piazza Navona e la fontana di Trevi. I pesci, i tritoni gli sembravano come bloccati da un incantesimo nel bel mezzo di un atto vitale, condannati a vivere per sempre nell’immobilità dell’acqua, sempre in movimento, ma sempre ferma nelle stesse forme, negli stessi spruzzi, nel suo scorrere incessante.
Anche quando poi salivano sul treno per Spoleto ed esso aveva lasciato le luci della città fatata per immergersi nella fredda notte dell’Umbria, Paolino credeva di sentire ancora quello scroscio perpetuo e continuo delle fontane di Roma, e le rivedeva nella sua mente come vite condannate ad una immobilità senza fine, in un tempo e in una dimensione ormai abbandonata, che non era più la sua, ma che comunque – Paolino ne era sicuro – esisteva in una sua propria immutabile realtà.